Balasso, la risata e i drammi di ogni giorno

di Anja Rossi (Il Resto del Carlino * 29/03/2015)
FERRARA

ERA PASSATO qualche anno dall’ultimo monologo teatrale da lui scritto e poi interpretato per i teatri della Penisola. Ieri Natalino Balasso è ritornato a far ridere il teatro De Micheli con “Velodimaya”, uno spettacolo sul mondo di oggi. E’ una risata più matura, la sua, che non dimentica i lavori precedenti, ma li trasporta nella contemporaneità, nell’oggi, e parla di noi, degli uomini che vanno a teatro col tablet e si scrivono su WhatsApp. Lasciati alle spalle i miti greci di “Ercole in Polesine” e la storia anni ’30 di “La tosa e lo storione”, Balasso ci immerge nei nostri drammi quotidiani, con un “nuovo monologo che -come spiega l’attore- voleva essere anche un monologo nuovo”, un nuovo modo di raccontare il contemporaneo. Velodimaya parte infatti da un presupposto essenziale, ovvero che “la realtà è tratta da una storia vera, ma è pur sempre un racconto”. Il filosofo Arthur Schopenhauer sosteneva che ci fosse un velo di Maya che nasconde all’uomo la realtà autentica delle cose. A questo ragionamento si ricollega il comico veneto, aggiungendo un particolare alla teoria del filosofo tedesco: “ognuno di noi ha in testa un puffo che ci proietta in testa quello che vogliamo vedere e che vogliamo sentirci dire. Così apponiamo altri veli sopra alle cose, che diventano il telo sul quale proiettiamo il nostro personale film”. Allora per Balasso c’è gente che crede nel lavoro, c’è chi crede nella scienza, chi nella politica o nei media, chi perfino degli ufo. Velodimaya diventa dunque in poco tempo un lungo discorso su ciò che crediamo di sapere, mentre l’unica verità è che “le parole sono solo un vestito esteriore della nostra società, a cui ciascuno dà la propria interpretazione, convinto che sia quella giusta, e in cui i significati cambiano continuamente”. Non c’è soluzione se non quella di rendersene conto, primo atto di responsabilità. E dunque una risata che cerca di portare al pensiero, un Balasso che, senza togliere il suo noto accento veneto, sembra sempre più cosciente della forza politica e rivelatrice del teatro. Un teatro che ride della dizione, della scenografia, dei costumi, un teatro che vuole ritornare quello che era: un insieme di persone che si riuniscono in una grotta, davanti a un fuoco, mentre uno di loro inizia a raccontare. Un ritornare lupi, e non per sbranarsi l’un l’altro.