DOSSIER/TEATRO COMICO

HYSTRIO 4/2015
DOSSIER/TEATRO COMICO
Abbiamo proposto a chi lavora e gioca con il comico a teatro di scegliere una parola-chiave sul tema e di scrivere una breve riflessione. Ne è nato un piccolo glossario sui meccanismi della risata.
a cura di Claudia Cannella, Maddalena Giovannelli, Martina Treu

HYSTRIO trimestrale di teatro e spettacolo

PARODIA
di Natalino Balasso
La parodia non nasce come meccanismo comico. Il comico se ne è impadronito. La parodia nasce come gioco musicale, quella cosa che tutti alle medie abbiamo più o meno sperimentato: cambiare il testo a una canzone, mantenendone la metrica e l’aria musicale. Raramente la parodia ha regole strette, ma è sempre un materiale originale rimaneggiato. Nel suo senso intimo non è che il meccanismo che Freud chiama “spostamento di campo”: prendo una frase, una canzone, un personaggio, una vicenda e lo inserisco in una nuova cornice. Se poi l’originale è drammatico, la riuscita comica della parodia ha grande efficacia. La parodia in sé non è una tecnica alta e nemmeno bassa, anche se oggi viene considerata una forma comica di minor valore. In realtà le sfumature sono moltissime: è parodia il meccanismo con cui Woody Allen realizza finti documentari, con tecnica sopraffina, in certi film come Zelig o Prendi i soldi e scappa, ed è parodia quando il cinepanettone racconta i viaggi nel tempo o il B-movie americano fa il verso ai film famosi.
Ormai i significati originari sono stati stravolti, basti pensare che il dizionario Treccani, oltre al significato classico di parodia, dà anche quello di imitazione caricaturale di personaggi celebri. Del resto viviamo in un’era post naturalistica, in cui i prodotti dell’arte scenica devono essere credibili, realistici, probabili, tutto è diluito in modo che il meccanismo non traspaia e tutto sembri naturale. Quando un comico in tv imita un personaggio politico, e di solito è truccato in modo da assomigliare molto a quel personaggio, realizza un’imitazione. E magari il suo personaggio fa un discorso politico nella cucina di casa sua e parla ai familiari come fossero il pubblico che gremisce una piazza, quindi è anche una parodia. E magari in quel discorso l’autore lascia trasparire una propria tesi ideologica di rovesciamento del potere, quindi fa anche satira. Ma, se ci pensiamo, altri meccanismi come la satira appunto – che è diventata livore senza gioia e ha perso la sua connotazione di “festa” – hanno smarrito molti dei tratti che li caratterizzavano anticamente. Sono diventati altro, come sempre accade alle cose in cui intervengono il linguaggio e le parole.

Balasso assessore ai “schei” ride del Veneto rapace

Applausi per l’attore rodigino in scena anche in veste di regista e autore “La cativissima” è al Teatro Goldoni fino a domenica. Dopo arriverà a Padova

di Nicolò Menniti Ippolito (La Nuova Venezia * 30/10/2015)
VENEZIA

Ha ragione Natalino Balasso quando al termine della prima al Goldoni di Venezia chiama vicino a se Massimo Ongaro, il direttore dello Stabile del Veneto, dicendo: “Abbi il coraggio delle tue scelte”. Lo dice ridendo, perché la prima è andata bene, perché il pubblico ha riso e applaude, ma certamente questa “La cativissima. Epopea di Toni Sartana” è una scommessa difficile. Lo spettacolo, in scena al Goldoni fino a domenica e la settimana prossima al Verdi di Padova, inaugura non solo la nuova stagione, ma anche la nuova gestione dello Stabile, diventato Teatro Nazionale. E invece di andare sul sicuro, Massimo Ongaro ha scelto una novità assoluta, che poteva anche scandalizzare (e forse in parte lo ha fatto) il pubblico tradizionale del Goldoni. Perchè, certo, Natalino Balasso è personaggio conosciuto, amato dal pubblico, ma in questo caso indossa non la veste del comico, ma quella dell’autore, del regista, dell’interprete di una commedia complessa, che dura più di due ore, provocatoria, molto contemporanea nonostante la lente deformante del grottesco, o per meglio dire della comicità nera e apocalittica che contraddistingue Balasso.
“La cativissima” parte da un testo molto amato, ma anche molto contestato nel teatro novecentesco, come l’ “Ubu roi” di Alfred Jarry. Non è una riscrittura, non è un’attualizzazione, se si vuole la distanza è anche notevole, ma il legame c’è, è forte, e conta. Toni Sartana, il personaggio centrale di “La cativissima” e dell’intera trilogia di cui il testo fa parte, è come Ubu un violento e un fanciullone, crudele aldilà di ogni limite ma anche assolutamente inconsapevole. E’ estremo in tutto, nelle imprecazioni come nei progetti. Balasso ha trasferito il personaggio da una Polonia di fantasia a una regione Serenissima, che certo è il Veneto, ma potrebbe anche non esserlo: perché l’ascesa di Sartana per diventare assessore ai “schei”, poi assessore unico, poi invasore della vicina regione Furla è, aldilà dei paradossali eccessi, quella di qualsiasi uomo di potere, anche se non per tutti il sogno fondamentale è avere casa a Jesolo e Asiago. Nella vicenda entrano poi ultrà di “Dominanza rodigina”, il sogno di presentare “Miss Consorzio”, i rifiuti e le rapine in villa, la manipolazione mediatica con giornalisti cloni e cloni giornalisti, un intero mondo dominato dalla rapacità cui tutto è asservito.
Balasso racconta tutto questo con la sua comicità e con la sua lingua: quel suo veneto di terra di grande efficacia, cui si affiancano in questo caso altri accenti, quelli di una serie di attori veneti (Stefano Scandaletti, Andrea Pennacchi, Marta Dalla Via, Silvia Piovan, Francesca Botti) che ben si integrano in una dimensione teatrale che sembra evocare in qualche modo anche a quella dei cartoon, perché i tratti dei personaggi sono tutti marcati, deformati, uni-dimensionali. Toni Sartana e i suoi compagni di avventura sono un po’ come i Simpson o i Griffin: tanto più veri quanto più lontani dalla verosomiglianza. Non a caso si muovono in una scena minimalista ma plasmabile, una sorta di sfondo che si presta a tutte le soluzioni. Si ride, ovviamente. La sensazione è anche che si riderà di più quando i meccanismi saranno più oliati e la sintonia col pubblico più immediata. E poi però c’è anche quel senso di un mondo irrimediabilmente devastato dalla sete di potere, denaro, piacere, grazie alla quale i Sartana della situazione, col loro nome da pistolero, sopravvivono sempre.