di Massimiliano Cavallo (La Guida * 08/11/2018)

Alla fine nessuno lo ha perdonato, il povero Arlecchino-Pasqual. La borghesia falsa e opportunista non ha perdonato il desiderio di riscatto (due stipendi da due padroni e una moglie anche per lui) del servo.
Si ride tanto nel corso dell’Arlecchino di Goldoni nella versione di Valerio Binasco e dello Stabile di Torino, interpretato da un Natalino Balasso, proprio perfettamente nella parte, con una parlata veneta che si presta alla comicità. Ma è un Arlecchino in realtà profondamente cupo e triste, dove sembra esserci solo spazio per i furbi, opportunisti e disonesti, in una netta divisione di classe. Al servo Arlecchino che tenta di sbarcare il lunario per mettere il pranzo insieme alla cena nulla è concesso: prova ad imitare la scaltrezza dei padroni (uno ha appena ucciso un uomo e l’altra si traveste da uomo per incassare una grossa cambiale) ma viene frustrato e umiliato anche nei suoi sentimenti per la bella Smeraldina. Dall’altra parte i borghesi Pantalone, uno strepitoso Michele di Mauro, e il Dottore che si affannano per la loro vita, per il loro denaro in deposito e per far fare quel che si dice un buon matrimonio ai loro figli, pronti a rompere una promessa in un batter d’occhio. Anche tra i borghesi ovviamente si soffre e si ama, ma la trama sembra dire che sono cose da giovani, gli onesti sentimenti e la passione sono una “malattia” di cui si guarisce presto. E la scena finale lo esplicita in maniera evidente: una festa per tutti con fiumi di vino per i due innamorati fuggitivi da Torino a Venezia e sotto falsa identità, per i due giovani figli di Pantalone e il Dottore il goffo e maldestro Silvio e la “teatrale” Clarice (che chiude il primo atto con un vero “colpo” di teatro con il pubblico reso complice) innamorati, prima promessi, poi obbligatoriamente a suon di frustate allontanati e poi di nuovo rimessi insieme. E i due padroni di Arlecchino si prendono burla del loro servitore, punendo il suo ardire, e negandogli anche la promessa di matrimonio alla serva Smeraldina. Un finale amaro per un Arlecchino triste che spiega anche il significato del suo nome, con le pezze non sul vestito, ma sulla sua schiena segnata a forza di cinghiate. Bella anche la scenografia composta di teli sottili in tinta pastello, per una scommessa regista che si distacca totalmente dal celebre allestimento di Strehler, senza maschere, acrobazie, e con abiti e musica che rimandano agli anni ’50.
Tutto esaurito in un Toselli caldo, troppo caldo (la temperatura della sala, intenso).