di Rodolfo di Gianmarco (la Repubblica ROMA * 17/02/2020)

E’ un capolavoro nella misura in cui è stilisticamente fuori moda, è sovversivamente inattuale, è scenicamente e costumisticamente naif, ed è attorialmente suscitatore di affetto e fascinazione, l’ “Arlecchino servitore di due padroni” di Goldoni nella chiave di regia d’uno straordinario teatrante come Valerio Binasco che, all’Argentina, propone il testo traendone uno spettacolo fragrante, schietto e contagioso come una sceneggiatura popolare di Cesare Zavattini, come un quadro rilassato di Antonio Donghi, come un modernariato famigliare di Antonio Tabucchi. Vedendo questa messinscena binaschiana con una troupe davvero a lui congeniale dello Stabile di Torino, ascoltandone i toni, avvertendone i ritmi, ho condiviso di slancio l’entusiasmo di Carmelo Bene per una certa compagnia degli anni Sessanta dove “non era mai in agguato il fantasma imbecille della confezione”. Fenomenale l’Arlecchino di Natalino Balasso senza abito a losanghe, senza maschera, senza piroette, e invece provvisto di un’impotenza mimetizzata e periferica che ne fa un povero Cristo da neorealismo anonimo. Delittuosamente impareggiabile il Pantalone borghese del sempre imbelvito, autorevole e tranchant Michele Di Mauro. Campione di loffia statura e di prosopopea del ceto medio è l’inconfondibile Fabrizio Contri in panni di Dottore supporter del figlio. E riconosco subito l’aitante deregulation di Elena Gigliotti cui tocca la parte della contesa giovanotta Clarice. Ma tutti gli interpreti sono bravissimi, appartenenti a tipologie di una commedia all’italiana che parla al cuore, alla pancia, alla poesia irriverente di noi spettatori di oggi chiamati a goderci un Goldoni formato vintage del beato dopoguerra dei siparietti, degli sketch, dei Legnanesi, della comicità struggente. E vogliamo dire qualcosa di quelle deliziose tele dipinte, arazzi di interni che vanno su e giù? E possiamo essere infinitamente grati a Binasco? Certo che lo siamo.