Balasso assessore ai “schei” ride del Veneto rapace

Applausi per l’attore rodigino in scena anche in veste di regista e autore “La cativissima” è al Teatro Goldoni fino a domenica. Dopo arriverà a Padova

di Nicolò Menniti Ippolito (La Nuova Venezia * 30/10/2015)
VENEZIA

Ha ragione Natalino Balasso quando al termine della prima al Goldoni di Venezia chiama vicino a se Massimo Ongaro, il direttore dello Stabile del Veneto, dicendo: “Abbi il coraggio delle tue scelte”. Lo dice ridendo, perché la prima è andata bene, perché il pubblico ha riso e applaude, ma certamente questa “La cativissima. Epopea di Toni Sartana” è una scommessa difficile. Lo spettacolo, in scena al Goldoni fino a domenica e la settimana prossima al Verdi di Padova, inaugura non solo la nuova stagione, ma anche la nuova gestione dello Stabile, diventato Teatro Nazionale. E invece di andare sul sicuro, Massimo Ongaro ha scelto una novità assoluta, che poteva anche scandalizzare (e forse in parte lo ha fatto) il pubblico tradizionale del Goldoni. Perchè, certo, Natalino Balasso è personaggio conosciuto, amato dal pubblico, ma in questo caso indossa non la veste del comico, ma quella dell’autore, del regista, dell’interprete di una commedia complessa, che dura più di due ore, provocatoria, molto contemporanea nonostante la lente deformante del grottesco, o per meglio dire della comicità nera e apocalittica che contraddistingue Balasso.
“La cativissima” parte da un testo molto amato, ma anche molto contestato nel teatro novecentesco, come l’ “Ubu roi” di Alfred Jarry. Non è una riscrittura, non è un’attualizzazione, se si vuole la distanza è anche notevole, ma il legame c’è, è forte, e conta. Toni Sartana, il personaggio centrale di “La cativissima” e dell’intera trilogia di cui il testo fa parte, è come Ubu un violento e un fanciullone, crudele aldilà di ogni limite ma anche assolutamente inconsapevole. E’ estremo in tutto, nelle imprecazioni come nei progetti. Balasso ha trasferito il personaggio da una Polonia di fantasia a una regione Serenissima, che certo è il Veneto, ma potrebbe anche non esserlo: perché l’ascesa di Sartana per diventare assessore ai “schei”, poi assessore unico, poi invasore della vicina regione Furla è, aldilà dei paradossali eccessi, quella di qualsiasi uomo di potere, anche se non per tutti il sogno fondamentale è avere casa a Jesolo e Asiago. Nella vicenda entrano poi ultrà di “Dominanza rodigina”, il sogno di presentare “Miss Consorzio”, i rifiuti e le rapine in villa, la manipolazione mediatica con giornalisti cloni e cloni giornalisti, un intero mondo dominato dalla rapacità cui tutto è asservito.
Balasso racconta tutto questo con la sua comicità e con la sua lingua: quel suo veneto di terra di grande efficacia, cui si affiancano in questo caso altri accenti, quelli di una serie di attori veneti (Stefano Scandaletti, Andrea Pennacchi, Marta Dalla Via, Silvia Piovan, Francesca Botti) che ben si integrano in una dimensione teatrale che sembra evocare in qualche modo anche a quella dei cartoon, perché i tratti dei personaggi sono tutti marcati, deformati, uni-dimensionali. Toni Sartana e i suoi compagni di avventura sono un po’ come i Simpson o i Griffin: tanto più veri quanto più lontani dalla verosomiglianza. Non a caso si muovono in una scena minimalista ma plasmabile, una sorta di sfondo che si presta a tutte le soluzioni. Si ride, ovviamente. La sensazione è anche che si riderà di più quando i meccanismi saranno più oliati e la sintonia col pubblico più immediata. E poi però c’è anche quel senso di un mondo irrimediabilmente devastato dalla sete di potere, denaro, piacere, grazie alla quale i Sartana della situazione, col loro nome da pistolero, sopravvivono sempre.

Cativissima

La Cativìssima
(Epopea di Toni Sartana)
commedia di Natalino Balasso

La cativìssima (Epopea di Toni Sartana) è la prima commedia di un progetto di trilogia che ho preparato per il Teatro Stabile del Veneto.

L’idea è quella di creare l’epopea di un personaggio surreale e fuori dagli schemi, Toni Sartana, appunto, il quale non ha mezzi termini, non ha remore morali, è totalmente ignaro di ciò che significa correttezza.
Toni Sartana tradisce chiunque pur di raggiungere il suo scopo e il suo scopo si direbbe sconosciuto a lui stesso. Vuole possedere per il semplice gusto del possesso. Per lui le persone, dalla più prossima alla più sconosciuta, sono solo strumenti.
Il personaggio di Toni Sartana sarà interpretato da me.
Le commedie sono scritte in italiano, ma alcuni personaggi usano un linguaggio che, seppur italiano, è intriso di venetismi e pronunce locali e giungono a creare una di quelle che Pasolini chiamava “le tante lingue dell’italiano”.

In questa prima commedia assistiamo alla resistibile ascesa di Toni Sartana, da semplice sindaco di un piccolo paese di campagna, fino ai vertici del suo partito, in seno al quale tradirà anche gli amici più fidati pur di diventare la massima carica della Regione Serenissima: Asessore ai Schei.
Ma questo non gli basterà, vorrà giungere a conquistare anche la confinante Regione Giulia all’inseguimento del Potere fine a se stesso. In questo clima da fanta-politica, in un tempo non definito, che potrebbe essere il futuro, Toni Sartana riluce come una sorta di Ubu veneto; fa ruotare gli eventi attorno a sè, istigato da una moglie, la signora Lea, che, come una moderna lady Macbeth, è forse più crudele di lui.
Tutto questo, com’è prevedibile, porterà ad una rovinosa caduta ma, come Ubu, Sartana ha la consistenza dei pupazzi di gomma, non si fa mai male, casca sempre in piedi. Egli è salvato dalla sua stessa inconsapevolezza.

Posso impegnarmi a dire che questa sarà una commedia molto divertente, intrisa di una comicità che non ritengo spocchioso definire tipicamente mia, mista a tratti di amaro e ineluttabile. Ho voluto curare anche la regia di questa commedia perché, per una volta, credo di avere identificato un percorso che somiglia molto a quello che cerco che sia il mio teatro: popolare innanzitutto, perché sono dell’idea che se vogliamo che a teatro ci vadano tutti dobbiamo anche riuscire a parlare a tutti, ma cercando di non essere mai scontato.

Natalino Balasso

Foto di Cativissima 2015
Foto di cativissima 2016

L’Italia secondo Natalino

INTERVISTA
Da Altreconomia

di Pietro Raitano — 23 agosto 2014
Il consumismo e l’utilità sociale, il lavoro e il tempo libero da utilizzare per dedicarsi a comprendere una società complessa. Intervista a Balasso, che ad Altreconomia dice: “La cultura dovrebbe permeare un’intera società, la conoscenza e la curiosità dovrebbero essere le cose che spingono l’essere umano ad andare avanti, perché a questo siamo programmati”

Provate voi a restare seri guardando Natalino Balasso, anche se le cose che dice sono serissime. Il problema è come le dice: un’irresistibile miscela di accento veneto, paradossi e verità. Cercatelo in teatro o almeno godetevi “Telebalasso”, il canale youtube dove pubblica interventi e parodie: sotto la coltre della commedia, come da copione, la feroce critica alla società dei consumi e alla politica. Tra testimonial di slot machine e l’epopea dei magnaschei, fino al telefono fatphone (“che cosa te ne frega a che serve: quando lo avranno tutti sarà irrinunciabile”).

Balasso, come funziona la “società dei consumi”?
Le associazioni dei consumatori sono il primo gradino della schiavizzazione. Usare la parola “consumo” che è un termine inesorabile ci catapulta all’interno di un noir, in cui le cose si “consumano” senza possibilità di ritorno. Noi non siamo “consumatori” ma utilizzatori, esseri umani che tentano di usare il mondo, chi parla di consumo lo usa malissimo.

Noi vediamo un ruolo strategico dell’informazione: esiste ancora l’indipendenza? Esiste ancora la qualità?
La qualità dell’informazione in Italia è sotto gli occhi di tutti. Con la complicità dei giornali (ma non dobbiamo dimenticare che i giornali appartengono a qualcuno), i giornalisti sono diventati sempre meno determinanti. Le paghe basse, la confusione creata da una free press che di free non ha proprio niente, le piccole roccaforti dei divetti con firma, hanno fatto il resto. L’informazione in Italia non c’è, c’è la tv, l’intrattenimento a cui pigramente si abbandonano gli italiani che non vogliono essere informati ma solo passare il tempo.

Oltre alla tv c’è ormai soprattutto internet: come condiziona le nostre vite, come le isola e ci “immunizza”?
Nessuno mi dà retta, ma continuo a dire che internet non è né più né meno che l’automobile della comunicazione.
Non è che prima dell’automobile nessuno viaggiasse, l’automobile ha semplicemente moltiplicato all’ennesima potenza ciò che avveniva prima. Le distanze si sono accorciate, la gente si è mossa, ma si è mossa portandosi dietro tutte le magagne che aveva quando non si muoveva. In internet tra un po’ ci saremo tutti, portandoci dietro il nostro elefantiaco sistema di pensiero e la nostra scarsa propensione a comunicare attraverso contenuti. La nostra comunicazione è ormai ridotta alla funzione fàtica, è cioè una comunicazione che serve solo a stabilire che c’è una comunicazione.

In politica possiamo ancora parlare di “beni pubblici” e del “bene pubblico”?
C’è uno svilimento del concetto di “pubblico” nel nostro modo di intendere il pubblico. Ormai tutti pensano che pubblico sia ciò che attiene alla burocrazia statale. Le cose non stanno così: una valle, anche se appartiene a qualcuno, è pubblica; un’opera d’arte, anche se appartiene a un privato, è pubblica; l’acqua è pubblica, non c’è privatizzazione che le toglierà questo aspetto, perché l’acqua è acqua e noi ne siamo semplici utilizzatori. Ciò che deve essere chiaro è che quando gestiamo un edificio, un teatro, un acquedotto, una linea ferroviaria o elettrica, gestiamo qualcosa che è di tutti e ne dobbiamo avere la cura che se ne ha con le cose care. Se lo vediamo come un’occasione di profitto e non come un’opportunità per la comunità, vuol dire che siamo cresciuti con un’idea malata di comunità. Il nostro problema è quindi culturale, perché non importa che una cosa pubblica sia gestita da un privato, importa che questo privato appartenga a una società che ha un rispetto religioso di ciò che è di tutti. Questo oggi non avviene, di qui deriva il nostro equivoco tra pubblico e privato, tra bene comune e bene privato.

Lavoro: la mancanza di occupazione è un dramma, ma è possibile immaginare modelli nuovi e alternativi?
Il lavoro è solo un modo per organizzare la produzione di beni e servizi, la paga è ciò che permette a chi ha lavorato di usufruire di parte dei beni e servizi a cui egli stesso ha contribuito. Potevamo organizzare la società in altri modi, ma sempre ci sarebbe stata necessità di uno scambio: io faccio una cosa per ottenerne un’altra, se questa cosa significa aggredire un orso o inviare delle mail, cambia il tasso di adrenalina ma non la sostanza della cosa in sé. Voglio dire che oggi siamo organizzati ancora secondo le regole che hanno organizzato le società del neolitico. Oggi però siamo in grado di immaginare molte più cose, di produrre molte più cose. Potremmo essere liberi e lavorare due ore a settimana, invece ci facciamo il culo e inneggiamo a bandiere, partiti, confini, razze, dèi e stupidaggini neolitiche. Questi rapporti di schiavitù li abbiamo scelti noi, e sembra che vogliamo tenerceli ancora a lungo. Il lavoro è qualcosa di cui liberarsi per fare altro, per conoscere, divertirsi, aiutare qualcuno; non è un concetto su cui fondare una nazione.

Lei lavora nella cultura: qual è lo stato di salute della cultura in Italia? È ancora un’eccellenza?, lo è mai stata?, che fare per sostenerla?
L’idea di sostenere la cultura è un’idea, di per sé, da sottocultura. La cultura dovrebbe permeare un’intera società, la conoscenza e la curiosità dovrebbero essere le cose che spingono l’essere umano ad andare avanti, perché a questo siamo programmati. Oggi, grazie all’organizzazione che abbiamo raggiunto, possiamo permetterci di lasciare ad altri la curiosità e la conoscenza, e di lavorare per pagare queste persone, le quali ci dicono cos’è la vita, quali sono i rimedi per le malattie, come dobbiamo pensarla, come è meglio che ci comportiamo; costoro ci impongono modelli di divertimento e di conoscenza, ci fanno immaginare l’erotismo che piace a loro, ci fanno pensare che il divertimento è ciò che diverte loro, che le opere d’interesse siano ciò che interessa a loro. Questo ovviamente ha generato rapporti di schiavitù. Se ci facciamo caso, la maggior parte della curiosità e della conoscenza è indirizzata alla guerra e al profitto di poche persone, le quali sono riuscite a convincere tutti gli altri che c’è necessità di guerre, che c’è necessità di crescita produttiva e che c’è necessità del loro personale profitto per il bene di tutti. Siamo un super computer da un milione di dollari che funziona con un sistema operativo Windows 3.1. Se non capiamo che la crescita avverrà solo se tutta l’umanità cresce, resteremo in questa condizione di primitivi che pigiano tasti senza sapere che fanno. La cultura è il velo che avvolge questo corpo in putrefazione e ne prende piano piano il marcio e gli odori. Noi ci stiamo trasformando in insetti necrofagi e ci nutriamo di morte, andiamo a vedere i dipinti dei pittori morti pensando che, siccome sono morti, sono più importanti, leggiamo quegli autori che il club degli intelligenti ha deciso siano gli autori da leggere. Quando produciamo immaginazione, produciamo standard. Basta vedere i premi letterari, i premi cinematografici, i premi musicali: è premiato chi produce un’opera che somiglia ad opere del passato che sono state importanti. Creiamo linguaggi nuovi che sono già vecchi il giorno dopo, perché di nuovo hanno solo il velo che ricopre il cadavere. Noi possiamo dare il significato che vogliamo alla parola “cultura” ma sarà sempre il prodotto di qualcosa che ci somiglia, oggi noi siamo questa roba qua. Bisogna farci i conti, ma bisogna anche prendersi la responsabilità di educare gli altri, a costo di deluderli. —

La TV è Telebalasso
Attore, comico e autore di teatro, cinema, libri e televisione, Natalino Balasso è nato nel 1960 a Porto Tolle, in provincia di Rovigo, località nota per le centrali dell’Enel, luogo simbolo dello scontro tra benessere e tutela del territorio da un parte, interessi economici dall’altra.
Debutta nel 1990 a teatro, all’età di 30 anni, e solo otto anni dopo in tv (diviene famoso grazie a “Zelig” e “Mai dire Goal”). L’ultima turné con “Aspettando Godot” di Samuel Beckett. Al cinema arriva nel 2007 (l’ultima pellicola, del 2010, è “La Passione”, per la regia di Carlo Mazzacurati), mentre i primi libri ormai hanno 20 anni (oggi ne ha all’attivo
una decina).
Il sito ufficiale è www.natalinobalasso.net ma imperdibile è anche Telebalasso, il suo canale youtube: www.youtube.com/user/natalinobalasso

“Diamoci una calmata sociale e fumiamoci 2 pipate di canapa in santa pace”

Cover-DV58
LEGGI L’INTERVISTA

Speciale interviste a cura di Matteo Gracis ed Enrica Cappello
Magazine ‘Dolce Vita’ * http://www.dolcevitaonline.it/

Nella speranza di una società più serena e meno frenetica Natalino Balasso consiglia di “fumare 2 pipate
di canapa in santa pace”. L’ironia cinica e tagliente del comico di origini venete apre gli occhi
sulle barriere mentali che circondano e infl uenzano quotidianamente ognuno di noi.
Il meschino gioco della manipolazione e della creazione dei bisogni fi ttizi, tipico della nostra società dei consumi,
viene scoperchiato da Balasso che ci mette di fronte alla realtà dei fatti. Una realtà in cui l’individuo
è mera merce e di conseguenza è più facile proibire, nonostante non abbia mai portato nulla di buono,
che educare perché la conoscenza si sa è l’arma migliore (di cui tutti dovremmo munirci!).

Velodimaya: Balasso, Schopenhauer e il puffo

Il pop incontra la filosofia e ne esce Velodimaya by Natalino Balasso. Un’occasione per ridere e pensare alle nostre sciocche certezze.
di Omar Manini (www.whipart.it * 15/12/2014)

Teatro Nuovo, Udine – Natalino Balasso porta il suo nuovo spettacolo Velodimaya a Udine per le stagioni crossover di CSS _Teatro Contatto e Teatro Nuovo Giovanni da Udine e riempie la sala di buon umore, scavando con ironia e sottigliezza tra le pieghe della nostra realtà. 


Prendendo in prestito dall’amico Arturo (Schopenhauer) il concetto chiave di una realtà illusoria e impossibile da oggettivare in quanto trasfigurata, nascosta da un velo, ci aggiunge il suo personale estro comico che ha nel puffo proiezionista l’esempio più folle e insieme lucido. 


Un esserino inserito nella testa di ognuno che ci fa vedere ciò che noi desideriamo, moltiplicando così le possibili chiavi di lettura e rendendo impossibile stabilire un unico punto d’incontro. 


Ecco che Balasso, con estrema, consumata naturalezza, costruisce un monologo che evidenzia con mille esempi e paragoni quanto la vita che viviamo sia immersa in una specie di nuvoletta che sorvola la realtà delle cose per rileggerla dal nostro interessato punto d’osservazione. 


Il risultato di tutto ciò è un’inconsapevole menzogna che diamo in pasto a noi stessi e agli altri, spesso combattendo e sopraffacendo in nome di ideali alterati. 


Alla fine ridiamo di noi e dei nostri limiti, ci riconosciamo in comportamenti che tutto hanno a che fare tranne che con la fede nella scienza esatta così esaltata, divinizzata. 


Velodimaya è una specie di mappa del pensiero contemporaneo nella quale il ridere è una conseguenza necessaria del racconto, non una finalità. Navighiamo attraverso il racconto dei desideri e delle paure dei nostri attuali compagni d’avventura in questo lembo di terra. […] Siamo dentro un film, ciascuno di noi recita un personaggio, chi meglio, chi peggio, ma tutti facciamo finta. […] Visti da lontano, in questo nostro affannarci, anche nel nostro inciampare, facciamo ridere. (N. B.) 


In una scenografia minimale – un pulpito, una bellissima micro-città di cartone sullo sfondo – il Nostro si chiede con un bellissimo paradosso se il suo sia teatro, privo com’è di una storia, di un attore accademico, di un’impronta produttiva classica o sperimentale, e poi ci dimostra come solo sapendo raccontare i vizi e le contraddizioni dell’umanità si possa fare Teatro di qualità. 


Divertente e amaro insieme, lo show è un nutrimento per la mente sicuramente non esente da pecche (onestamente la parte dedicata al linguaggio e alla lingua è una parentesi stanca), ma riscattate con pagine di alta qualità.



VELODIMAYA


testo scritto e interpretato da Natalino Balasso

scene/luci: Rita Scarpinato

luci a audio: Suonovivo BG

musiche: Nathaniel Basso

e… organizzazione Simonetta Vacondio

Produzione durata Voto
Teatria srl
140 min. senza intervallo 



7+ 


Con Balasso al Ctm la risata è umana e popolare

di Simone Tonelli (Giornale di Brescia * 22/02/2015)

Ci sono cose che uno non immagina neanche che potrebbero far ridere…Invece…Un’antologia (un’enciclopedia?) italiano-veneta della risata. Vivente. E’ Natalino Balasso, l’altra sera, venerdì, al Teatro Ctm di Rezzato, per tre ore (tra uno scoppio di ilarità e l’altro, lui trascina il pubblico e il pubblico trascina lui), in scena su invito del Cipiesse con “Stand Up Balasso”, un “il meglio di” comico per una platea da tutto esaurito.
Si comincia con l’attore di Porto Tolle che, inforcati gli occhiali, legge improbabili definizioni della categoria “amici veneti” (“Non ascoltano i pettegolezzi sul tuo conto. Ne mettono in giro di nuovi”). E il clima, per complicità, è un po’ quello. Lo stile è da affabulazione comica: “Il 90% di quello che sappiamo ce l’hanno raccontato, non l’abbiamo vissuto. Tanto che, se una cosa non la racconti, pare che non esista”.
E così Balasso dà il via alla narrazione, anzi, alla digressione, perchè ogni storia ne nasconde sempre un’altra, e ogni battuta diventa un’Odissea (anche di Ulisse e Polifemo e, prima, di Paride e Priamo si parla) di facezie.
La storia è passione sincera (Una storia orizzontale, di gente che migliaia di anni fa aveva i nostri stessi sentimenti, e ci parla ancora oggi), ma anche virtuosistico gioco di parole (dalla Mesopotamia spunta un racconto sui “somari dei sumeri semiti e non semiti”).
L’antico, e amato, dialetto pavano diventa spasso per una lingua che perde tutte le consonanti (“i gà igà i gai”, per “hanno legato i galli”). Ci sta anche uno “Stabat Mater” pietoso per chi soffre, una leggenda comica con morale su una divina punizione (una portentosa diarrea) per un ricco avido.
Con Balasso, comicità diventa far parte di un’unica grande storia comica, dove alto e basso, dialetto e lingua, miti e poesia, umili e potenti si confondono, si ribaltano e la risata si fa umana, condivisa, popolare nel senso più bello.

Balasso, la risata e i drammi di ogni giorno

di Anja Rossi (Il Resto del Carlino * 29/03/2015)
FERRARA

ERA PASSATO qualche anno dall’ultimo monologo teatrale da lui scritto e poi interpretato per i teatri della Penisola. Ieri Natalino Balasso è ritornato a far ridere il teatro De Micheli con “Velodimaya”, uno spettacolo sul mondo di oggi. E’ una risata più matura, la sua, che non dimentica i lavori precedenti, ma li trasporta nella contemporaneità, nell’oggi, e parla di noi, degli uomini che vanno a teatro col tablet e si scrivono su WhatsApp. Lasciati alle spalle i miti greci di “Ercole in Polesine” e la storia anni ’30 di “La tosa e lo storione”, Balasso ci immerge nei nostri drammi quotidiani, con un “nuovo monologo che -come spiega l’attore- voleva essere anche un monologo nuovo”, un nuovo modo di raccontare il contemporaneo. Velodimaya parte infatti da un presupposto essenziale, ovvero che “la realtà è tratta da una storia vera, ma è pur sempre un racconto”. Il filosofo Arthur Schopenhauer sosteneva che ci fosse un velo di Maya che nasconde all’uomo la realtà autentica delle cose. A questo ragionamento si ricollega il comico veneto, aggiungendo un particolare alla teoria del filosofo tedesco: “ognuno di noi ha in testa un puffo che ci proietta in testa quello che vogliamo vedere e che vogliamo sentirci dire. Così apponiamo altri veli sopra alle cose, che diventano il telo sul quale proiettiamo il nostro personale film”. Allora per Balasso c’è gente che crede nel lavoro, c’è chi crede nella scienza, chi nella politica o nei media, chi perfino degli ufo. Velodimaya diventa dunque in poco tempo un lungo discorso su ciò che crediamo di sapere, mentre l’unica verità è che “le parole sono solo un vestito esteriore della nostra società, a cui ciascuno dà la propria interpretazione, convinto che sia quella giusta, e in cui i significati cambiano continuamente”. Non c’è soluzione se non quella di rendersene conto, primo atto di responsabilità. E dunque una risata che cerca di portare al pensiero, un Balasso che, senza togliere il suo noto accento veneto, sembra sempre più cosciente della forza politica e rivelatrice del teatro. Un teatro che ride della dizione, della scenografia, dei costumi, un teatro che vuole ritornare quello che era: un insieme di persone che si riuniscono in una grotta, davanti a un fuoco, mentre uno di loro inizia a raccontare. Un ritornare lupi, e non per sbranarsi l’un l’altro.

Alto, basso e Balasso: raffinato e popolare all’Arena del Sole

di Chiara Mignani (Gazzetta di Parma – 08/12/2014)

Trascinante ed esilarante, Natalino Balasso ha squadernato con incredibile energia il suo repertorio “storico” nello spettacolo “Stand Up Balasso”, sabato sera all’Arena del Sole di Roccabianca. Insieme raffinato e popolaresco, capace di catturare l’immaginazione, ricco di riferimenti letterari preziosi (Omero, Ruzante, Luigi Meneghello) e senza paura di mescolare alto e basso, di scompaginare e giocare con i registri del racconto, in sintesi: Balasso è un grande narratore. Formidabile è la lingua usata dal comico, la sua cadenza e il suo lessico sghembo, un grammelot che nasce nel nord est, una lingua un po’ da infanzia, decisamente spassosa ma anche tenera, perfetta per raccontare storie.
Possono essere grandi storie come i racconti omerici, che il comico rivisita con una contaminazione felice, senza mai scadere nel didascalico o nella banalità; nella sua versione l’Odissea “scomincia”, Polifemo è “imbraco come una scimia” e Ulisse quando finalmente torna ad Itaca fatica a riconoscerla “perché hanno costruito tante nuove rotonde”.
Possono essere piccole storie come il racconto del ménage famigliare (ed alcolico) del Torbolo e di sua moglie Marisa, vite marginali che danno forma ad un’epopea ruspante del nord est.
Ma tutte, grandi e piccole, arrivano con forza al pubblico, sono animate dalla passione e dall’intelligenza del narratore, che la rafforza con una straordinaria mimica e una sapiente gestualità. Impagabile è la lezione sul “pavano” (dialetto padovano) dell’interno: “una lingua così difficile che anche i padovani quando si parlano tra loro non si capiscono”.
Irresistibile l’incursione nell’archeologia onirica con il pezzo “il somaro dei sumeri”: uno scioglilingua vertiginoso e virtuosistico. Il teatro era tutto esaurito, tanti gli applausi a scena aperta, il pubblico è stato completamente conquistato dalla travolgente performance di Balasso, lunghissimi gli applausi finali.