di Silvia Ferrannini (Krapp’s Last Post * 17 ottobre 2018)

Valerio Binasco mette in azione il il marchingegno teatrale, e il coro alza la propria voce. Al regista di Paderna piace regalare alla scena lo spazio per respirare, muoversi, balenare da un equivoco all’altro. La drammaturgia, per questo “Arlecchino servitore di due padroni”, si dipana tra l’arguzia del dialogo e l’energia cinetica degli accadimenti – e non stupisce, tenendo conto che lo stesso regista non si definisce «un gran cultore della parola». Qui palpita l’intreccio delle relazioni, che schiude toni interiori che davvero si prestano ad essere modulati secondo la sensibilità contemporanea, senza nulla togliere al “mostro sacro” di Goldoni. I personaggi vivono di un dinamismo insopprimibile: si può ben dire che Binasco sia, più che un regista, un attore che scrive regie.
Portando nei teatri questo “Arlecchino”, nuova produzione dello Stabile torinese, si evoca inevitabilmente lo spettro di Strehler; ma il regista qui intende rinnovare quella passione con le proprie mani e il proprio pensiero. Il suo Arlecchino (interpretato da un bravissimo Natalino Balasso) è sicuramente ingordo, imbroglione e non troppo furbo, ma è comico suo malgrado nell’essere avvilito dalla vita, come s’addice a un’anima semplice: incarna insomma un’arte tenera e stralunata, in cui la duplicità non è abile travestimento o doppio psicanalitico ma, molto più intuitivamente, il gioco umanissimo delle contraddizioni. L’icona della pièce è un po’ Truffaldino un po’ Pierrot, con la lacrima scura dipinta in volto.
Le pezze colorate sottese al suo nome sono le toppe di chi, di fronte alle disavventure e alle miserie della vita, ha dovuto reinventarsi. La perenne fame di Arlecchino è, in senso più ampio, povertà, o forse anche desiderio di amore, qui rappresentato dalla fresca e dolce Smeraldina (Marta Cortellazzo Wiel).
Barcamenarsi tra le molteplici vicissitudini che sbarrano la strada significa anche fare tante cose che non riescono (guarda caso Arlecchino combina i pasticci peggiori proprio quando prova a pensare), mentire e agire davvero “di pancia”. È proprio questo movimento a ravvivare la scena, entro un set dai colori tenui e organizzato in modo molto cinematografico.
Ma c’è anche del tragico nella storia del “Servitore dei due padroni”. Se si guarda infatti allo spettacolo dal punto di vista degli altri personaggi, si noterà come Binasco abbia cercato di non farli fungere da cornice ad Arlecchino. È bene ricordare che la miccia della vicenda è un omicidio: in effetti Florindo (Gianmaria Martini) e Beatrice (Elisabetta Mazzullo) sono decisamente tragici – e gli attori ben incarnano il pathos dei loro sentimenti; Silvio (Denis Fasolo) e Clarice (Elena Gigliotti) sono più goffi e leggeri, ma non meno mossi da vivo amore.
Il regista sceglie di non rinunciare a questa componente bensì di enfatizzarla, pur sempre dietro le maschere della Commedia. A puntare il dito accanto a loro vi è la borghesia facoltosa, interpretata dagli ottimi Michele di Mauro (Pantalone) e Fabrizio Contri (il Dottore), interessata unicamente a far tornare i conti, incurante dei desideri altrui e inamovibile nei suoi giudizi.
“Arlecchino servitore di due padroni”, al Teatro Carignano di Torino fino al 28 ottobre, crea un binario fra la grande tradizione comica del nostro Paese e il teatro d’oggi, rinunciando all’”effetto cartolina” e chiamando sul palcoscenico l’Italia stessa, la bella Italia che vive (anche) delle sue memorie. Ma alla fine, tutti si siori perdoneranno le stravaganze di quel povero diavolo di Arlecchino? La società che lo giudica gli concederà la grazia per essere, essenzialmente, ciò che è?

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