di Masolino D’Amico (La Stampa * 15 ottobre 2018)

TORINO
Visconti, Strehler, Squarzina, Castri e altri ancora, ultimo Toni Servillo, hanno dimostrato come sotto all’un tempo presunta superficialità e scorrevolezza di Goldoni ci fossero inquietudini, malinconie, frustrazioni degne di un Cecov settecentesco. Oggi Valerio Binasco applica questo tipo di lettura a un testo degli esordi, generalmente letto come “solo” farsesco, derivato da un canovaccio di Commedia dell’Arte; e ne ricava uno spettacolo interessante e gradevole, anche se non del tutto convincente. Perché Arlecchino servitore di due padroni (al Carignano fino al 20) è, appunto, la commedia di Arlecchino, vale a dire, la beneficiata di un comico dall’energia inesauribile, uno capace di sdoppiarsi sia nella natura (stupido-furbo, brilla nel trovare scuse alle balordaggini che commette) sia nel corpo, quando serve contemporaneamente, malissimo, due diversi padroni.
Andando contro il virtuosismo di queste esibizioni, Binasco impone a Natalino Balasso un Arlecchino lento, defilato, sornione, quasi rassegnato -in una scenetta si spiega che costui non è Arlecchino, è solo stato soprannominato così- un testimone che segue le azioni senza capire niente, badando solo a trarne piccoli vantaggi. Da canto loro i signori, per cui i sottoposti non sono persone umane, si fidano di lui precipitando così in situazioni disastrose.
Gli exploit anche atletici del pivot sono ridotti al minimo; e quando cita il principale di questi, un frenetico smistamento di portate tra due appartamenti, la regia ne prende le distanze, abbassano le luci fino a concluderlo nel buio, con commento di musica solenne. Con questa impostazione dovrebbero conquistare spessore i personaggi dell’intreccio, ma dentro questi, che in origine sono maschere, c’è poco da scavare. Si torna pertanto all’origine, a una serie di gag spassose, equivoci e quiproquo, un po’ sabotate dal ritmo rilassato, sono quasi tre ore.
Un po’ di sapore viene dal veneto, che non tutti parlano (tra quelli che lo fanno c’è, curiosamente, Beatrice, che dovrebbe essere torinese). Ma malgrado l’ottima compagnia, gli effetti alla lunga diventano ripetitivi, e persino un bravissimo caratterista come Michele Di Mauro, che è Pantalone, esaurisce il suo repertorio di mossette e stupori. Indovinato il sommesso, variabile impianto scenografico di Guido Fiorato.