di Alfonso Cipolla (La Repubblica * 22 ottobre 2018)

La rilettura della commedia goldoniana assume caratteri plumbei. Bella prova del protagonista Balasso e del Pantalone Di Mauro, attori che vanno oltre le battute. Emergono anche le figure femminili di Elisabetta Marzullo e Marta Cortellazzo

Che resta de “Il servitore di due padroni” di Carlo Goldoni senza la violenta esasperazione teatrale della commedia dell’arte? Rimane un intreccio formidabile di solitudini che caparbiamente si cercano o si arroccano su se stesse. Rimane una dimensione di grottesco, sul crinale di un dramma sempre possibile, ma pur sempre evitato. Rimane un Arlecchino senza lazzi, che si barcamena come può per sfangare la giornata. E rimane un Pantalone, più opportunista che buon padre di famiglia, “rustego” di aspra scorza. Quel travolgente gioco scenico, immaginato da Goldoni al suo esordio, ha già in sé, potenti, tutti gli ingredienti della sua riforma successiva, di quando il teatro del mondo e la lente critica sulla società prendono il sopravvento, inducendo al realismo e all’abbandono delle maschere.
Ma non è tanto questo che vuol dimostrare Valerio Binasco con la sua riproposizione smascherata (in ogni senso) dell’ “Arlecchino servitore di due padroni”. L’interesse è semmai tutto volto a voler rintracciare in quel lontano mondo settecentesco radici e vizi da commedia all’italiana in bianco e nero, quasi a voler evidenziare una sorta di Dna sociale, ridicolmente piccolo borghese, che accompagna nei secoli il nostro essere e la nostra esistenza.
La rarefazione del tempo scenico e della recitazione, tarpa sì la forza comica sanguigna delle maschere, ma proietta personaggi e situazioni in una dimensione più umoristica e a tratti, in questa lettura, plumbea. L’Arlecchino non-Arlecchino di Natalino Balasso ne è il segno più sintomatico. Viene, si direbbe, riportato indietro nel tempo per renderlo più contemporaneo. Perde l’acrobaticità che lo caratterizza nel nostro immaginario, così come un’eleganza tutta primonovecentesca, per imparentarsi, in un realismo esasperato, a un poveraccio alla Ruzzante, bastonato e sconfitto da un mondo ostile che continuamente lo irride. Balasso gioca sulla tenerezza, sull’impaccio, sull’argutezza goffa d’un tornaconto spicciolo. Ne fa un personaggio inerme, motore sì della vicenda, ma suo malgrado: prima vittima di un ingranaggio messo in moto per racimolare qualche soldo in più, a partire da peccati veniali, da furbizie minime italiote… Non c’è più estro funambolico nel suo operato, ma solo lotta alla miseria e al suo stato marginale. A questo non-Arlecchino fa da contraltare il non-Pantalone di Michele Di Mauro, opportunista fino all’eccesso, despota e ipocrita in virtù del portafoglio e del decoro. Perfetto esempio di meschinità piccolo borghese, tutta volta alla difesa di un benessere sociale ed economico che non può essere in alcun modo scalfito. Michele Di Mauro, così come Natalino Balasso, sa andare oltre le battute, sa giocare abilmente di rimessa nelle controscene, negli incroci di sguardi, nei sospiri rotti o negli sbotti improvvisi, conferendo una rotondità unica al suo nuovo personaggio, corroborando in tal modo l’imposto registico.
In questo disegno, si diceva, di “smascheramento” i personaggi femminili emergono con particolare vigore, mettendo in luce quella figura di donna emergente nella chiusa società maschile tanto cara a Goldoni. In scena vivono della forza di Elisabetta Mazzullo (un’intensissima Beatrice che fa vibrare corde di disperata risolutezza) e Marta Cortellazzo Wiel (la servetta Smeraldina). Ed è quasi un riscatto per Binasco dopo il taglio fortemente misogino del “Don Giovanni” della scorsa stagione.