Eccessi, cattiveria da cartoon, finzione esasperata ma anche talento: la seconda puntata de La Cativìssima è un infinito concentrato di gag

di Simone Azzoni (L’Arena * VERONA 24/03/2017)

TEATRO NUOVO. Le due ore e mezza di spettacolo di “Toni Sartana e le streghe di Bagdad”

Ancora il palco del Teatro nuovo per Natalino Balasso, dopo averlo calcato in apertura di rassegna. Ma questo Sartana è lontano anni luce da quello Smith uscito dalla penna di Baricco.
Il protagonista de Toni Sartana e le streghe di Bagdad, seconda puntata de La Cativìssima è così cattivo da far ridere. Tutto è eccessivo e così esageratamente grottesco che forse alla platea dopo due ore e trenta non sarà venuto il mal di pancia vedendosi allo specchio.
Più disteso del primo episodio, il secondo bada soprattutto a far ridere.
La raffica delle battute sommerge la scaletta da Macbeth. Sono così tante che ne registriamo una per tutte: “essere voltagabbana come un camaleonte tra i coriandoli”.
La tragedia shakespeariana non è la sola citazione che finisce nel caotico tritacarne di Balasso. Gli “a-parte” della bravissima Francesca Botti sembrano quelli di Goldoni, e Bordin con Sartana in Iraq assomigliano alla brutta copia delle Sturmtruppen. Ma ognuno può veder quel che vuole, perfino le vignette di Tex Willer, il film La Grande bellezza, Tarantino o addirittura certa retorica “di sinistra” alla Renato Guttuso.
E’ il gioco del teatro. E infatti il boccascena è un grande dollaro di cartone: evviva la finzione e tutto quello che vi accade dentro, bombardamenti a colpi di luce compresi. Finti i personaggi, così finti da essere delle figurine da cartoni animati, supereroi da video giochi, costruiti come maschere distanti dall’attore e dalla sua personalità.
Balasso vigila che non prevalga l’attore. Nasconde la bravura dietro le inflessioni dialettali, mescola le carte giocando a fare il serial killer ignorante. E tutto il cast lo segue a meraviglia (Marta Dalla Via, Andrea Collavino, Denis Fasolo e Beatrice Niero). Si sceglie la via del finto per insinuare il vero, con cinismo dilaniante.
Le mani affondano ancora nel nordest, nelle medio-imprese, nella borghesia di Pietro Germi, con un pizzico di esoterismo da Eyes Wide Shut “de noaltri”. Ma guai fermarsi: ci accorgeremmo di come siamo avidi, meschini, arrivisti, gretti e stupidamente abitudinari.
E così si precipita in un ritmo forsennato di colpi di scena: più nel primo tempo, poi ci si abitua e l’andamento si stiracchia anche senza un reale perché drammaturgico.
I morti tagliati a pezzi non ci fanno del male e non si fanno del male, appunto come i cadaveri dei cartoon.
Forse perché manca il giudizio etico, qui si celebra l’idolatria “dei schèi”.
Nella massa di colore, accostamenti improponibili e blocchi modulari (un po’ i container del primo episodio) su cui ci si issa nella scalata al successo e ai soldi, s’intravede anche qualche verso shakespeariano che sopravvive come le rime del bardo dentro un film di Baz Luhrmann.
Gli stereotipi si sprecano: dagli spritz a youporn, ai voucher. Assemblati come un caotico collage pop.
“Amo la confusione linguistica”, ci aveva detto Balasso. E’ il linguaggio del sogno, dove tutto si confonde, si mescola. Un nuovo stile, da confermare nel terzo episodio.
Un impressionismo teatrale che deve essere visto da lontano ma, aveva detto Balasso, “per vedere da lontano ci vuole buona vista”.