da: I Rusteghi di Carlo Goldoni
traduzione e adattamento: Gabriele Vacis e Antonia Spaliviero
con: Eugenio Allegri, Mirko Artuso, Natalino Balasso, Jurij Ferrini
e con: Nicola Bremer, Christian Burruano, Alessandro Marini, Daniele Marmi
composizione scene, costumi, luci e scenofonia: Roberto Tarasco
coproduzione: Teatro Stabile di Torino/Teatro Regionale Alessandrino

regia: Gabriele Vacis

I Rusteghi appartiene alla maturità compositiva di Carlo Goldoni, che coincide anche con gli ultimi malinconici anni della permanenza a Venezia. Ai fasti del pubblico, che accompagnano la felice stagione del 1753 delle sedici commedie riformate, seguono le commediole antagoniste dell’abate Chiari, che sottraggono pubblico al commediografo, ma soprattutto la polemica restaurazione proposta da Carlo Gozzi, a favore di un ritorno alla Commedia dell’Arte.
Due anni separano Goldoni dal viaggio a Parigi, alla Comédie Italienne, e sempre più nelle sue storie si coglie il disinganno per una realtà storica profondamente diversa da quella raccontata agli esordi: Venezia ha perso il ruolo di potenza dell’Adriatico, agita da una classe aristocratica incapace di gestire un indispensabile cambiamento di rotta e da una borghesia commerciale che stenta a imporsi come classe dirigente.
I Rusteghi si inserisce dunque a pieno titolo su questo sfondo, con un tratto di audacia finora mai emerso. Il mercante Pantalone, l’avveduto borghese che in molte commedie incarna l’ideale di un soggetto sociale avveduto e responsabile, si trasforma in una amara caricatura di se stesso. Autentico tiranno, si impone con protervia su famiglia e domestici.
In un prezioso gioco di specchi, Goldoni amplifica le valenze del personaggio sdoppiandolo in altrettanti alter-ego, gli altri “rusteghi” dell’opera: Canciano, Leonardo, Simon e Maurizio. La loro capitolazione a un nuovo codice comportamentale ha il sapore di un happy end forzoso, estraneo per primo a loro stessi.
Commedia cupa e vagamente claustrofobica, I rusteghi parla ancora al nostro tempo, all’intolleranza travestita da moralismo, alla difficoltà di mettersi in relazione, alla mancanza di comunicazione di un’epoca che proprio della comunicazione fa il proprio vessillo.
Il disinganno di Goldoni è ancora vivo nelle parole dei protagonisti e descrive una società buia e alla deriva, sopita, ma ancora presente, nella nostra pratica quotidiana.