Novembre 2015
Quando metto in scena uno spettacolo non parto mai da personaggi che imitano persone reali, la cosa non m’interessa, perciò, per dirla con Zizek la mia non è imitazione della realtà, ma simulazione, creazione di una realtà nuova. “L’imitazione, imita un modello di realtà preesistente, mentre la simulazione genera la parvenza di una realtà non esistente, simula qualcosa che non esiste” (Slavoj Zizek, Lacrimae rerum).
Non si deve perciò pensare che se nella Cativìssima Toni Sartana fa il politico, quello che voglio mettere in scena sia il mondo della politica, Sartana non “rappresenta” un politico, non è l’imitazione di personaggi che esistono nella realtà, è una maschera semplice nei fatti ma complessa nella stesura del suo significato. Un cinturone con pistole in stile old west, il richiamo al mondo dei gangster del cinema anni ’40, una camicia che potrebbe appartenere a un personaggio balcanico di Kusturica anni ’90, una parlata che potrebbe ricordare la mala del Brenta anni ’70, sono tessere che s’incastrano in un ambiente che, pur essendo un porto sul nulla distopico e forse futuro, parla a noi contemporanei. Sartana, come gli altri personaggi, è una maschera complessa.
Complessa perché in ciò che scrivo è molto raro che una maschera da me creata rappresenti un solo personaggio; anche se si possono fare risalire ad archetipi semplici, i personaggi che metto in scena rappresentano più aree di pensiero umano racchiuse nello stesso vestito. Nel caso della Cativìssima Toni Sartana, ancor prima di rappresentare “la politica”, rappresenta il popolo, la gente del mondo occidentale con tutto il suo carico di rabbia, di viltà, di invidia e di ipocrisia. Abbiamo quindi, dentro Sartana, più tipi umani, così come li abbiamo negli altri personaggi e sarebbe superficiale fare il gioco del teatro naturalistico per cui se si parla di un tanko vuol dire che Sartana è della Lega, perché le cose non stanno così: nei miei lavori non uso mai strumenti di “satira” perché oggi la satira è imitazione della realtà. Non si trovano perciò nella Cativìssima frecciate contro la corruzione della politica, anche se potrebbe sembrare, ma si dice che siamo noi i corrotti e quindi generiamo una politica corrotta. Nessuna frecciata, dunque, ma semplice constatazione del fallimento morale della società occidentale. Rappresentare il lato becero del mondo occidentale significa usare un linguaggio volgare, perché è volgare chi viene dal popolo e perché oggi il popolo è volgare. L’uso del linguaggio scurrile perciò non va inteso come un mezzo per fare ridere perché, anche se la commedia fa ridere, il linguaggio scurrile, ripetuto, insistito, alla fine diventa inquietante, non fa più ridere e infatti non è quello il suo scopo, il suo è uno scopo simbolico, ma sarebbe la stessa cosa con un linguaggio “troppo” gentile.
La stessa operazione fatta col turpiloquio trova riscontro anche in certe azioni. L’insistenza parossistica nell’azione o nella parola, è una caratteristica della vita contemporanea, non vado però a rappresentare la pubblicità che ti dice di compiere sempre le stesse azioni o la cultura sociale che ti dice che devi ripetere sempre gli stessi comportamenti, vado invece in direzione del tic fisico, che significa la stessa cosa: un personaggio fa sempre di sì o di no con la testa, ma non riesce a controllare il suo movimento, altri prolungano un’attesa all’infinito senza chiedersi quanto tempo passi, è la fedeltà la loro cifra, sono fieri nell’obbedienza. C’è, nella commedia, la scena di uno strangolamento, ma lo strangolatore non compie il gesto in un tempo che sarebbe normale per un film o per una commedia, è un gesto insistito, prolungato, anche questo gesto diventa inquietante, il pubblico ride, ma a denti stretti, perché in sottofondo vanno i suoni della tv nel suo susseguirsi di voci suadenti o materne, insistite anch’esse, e a questo punto la tv, col suo entusiasmo festoso stride con la drammaticità della scena. Cambia la luce e cambiano i tempi delle battute quando si parla di una truffa ai danni dell’erario, la scena diventa un film noir, abbiamo riso fino a dieci secondi prima ma ora un’inquietudine s’impadronisce del pubblico.
È questo il mio modo d’intendere la commedia, comprende il racconto della tragedia e di tutto il resto, è omnicomprensivo: si ride perché solo la leggerezza ci può salvare dal baratro del vuoto esistenziale.
Scambiare tutto questo per una satira nei confronti dal potere o della politica è banalizzante. La Cativìssima scava nel profondo delle nostre viscere per trovare i nostri demoni personali, ci siamo noi dentro questo baratro e non possiamo dare la colpa a nessun altro. Il pubblico lo percepisce, talvolta, perché avverte il disagio della mancanza di consolazione, perché, nonostante la sua ubuesca esagerazione, noi non ci sentiamo autorizzati a dire “Sartana non è come me”.
Oggi la satira è consolatoria: deride il potere e illude il popolo di non entrarci per niente con il circo dei potenti, ma i potenti di oggi sono il prodotto della nostra cultura, sono il risultato di ciò che noi tutti siamo, questo è ciò che io rappresento, questo è l’abisso che non vogliamo vedere.
Il linguaggio è un’altra cosa che trae in inganno lo spettatore, il quale si stupisce di capire tutto nonostante la commedia gli sembri recitata in una lingua diversa dall’italiano, in realtà la commedia non ha un solo linguaggio, ma livelli di linguaggio a seconda del gruppo a cui appartiene il personaggio. Innanzitutto si tratta di una commedia in italiano, questo va detto perché qualcuno, forse poco attento, crede che si tratti di una commedia in dialetto. In realtà è un italiano che si va via via sporcando di errori e italianizzazioni del dialetto man mano che ci si avvicina al centro della tana del ragno: Pontegara. Pontegara è il piccolo paese da cui partono tutti i personaggi della commedia, come una sorta di sacca amniotica che dà vita al male. I personaggi che più sono rimasti legati all’ombelico topico accettano più malvolentieri l’italiano e lo parlano in modo approssimativo, gli altri, quelli che per una ragione o per l’altra hanno voluto affrancarsi, parlano un italiano più corretto. Tutti insieme, questi “italiani locali” danno vita al linguaggio della commedia, un neoitaliano molto colorito.
Una piccola nota sul “fare ridere”. Faccio mia la lezione di Eduardo, che diceva che l’unico modo, oggi, per raccontare la tragedia è la commedia. Questo non riguarda, secondo me, il fare ridere ma riguarda la leggerezza. Ridere è l’azione presieduta da zone precise della corteccia nel cervello recente; durante un’operazione chirurgica con paziente sveglia, su una ragazza di 16 anni, i chirurghi si sono accorti che sollecitando poche precise zone della corteccia, la paziente trovava buffo qualsiasi particolare, si metteva a ridere osservando i camici dei dottori o la forma della lampada. Ridere è dunque un punto di vista, ed è un’azione mossa da precisi snodi neuronali del nostro cervello. Il così detto gas esilarante va a sollecitare quegli snodi e, con l’azione congiunta di sbloccare i freni inibitori, muove l’azione del ridere. Cos’è che facciamo dunque, quando muoviamo il riso negli spettatori? Creiamo un momento di benessere, certo, un momento che lo spettatore vuole sperimentare nuovamente, ma questo è solo l’aspetto fisiologico del fenomeno della comicità. La domanda è: di cosa si fa ridere? Qui il discorso prende molte strade, posso dire che la mia intenzione è quella, attraverso la leggerezza dello stato d’animo, di raccontare il lato scabroso del nostro vedere il mondo, la risata è quindi un piede di porco per sfondare la porta dei segreti del nostro animo, la “vaca bisa” di Meneghello, che nella confessione dei peccati, sfondava la siepe di rovi per far passare altri animali, più subdoli ma più piccoli. La risata è un fenomeno eclatante e, a differenza della commozione o della tensione tragica, funziona solo per emulazione ed è supportata dal numero degli spettatori: più siamo più ridiamo. La risata è un fenomeno collettivo, non può esistere un comico che abbia poco pubblico, mentre il tragico si può rappresentare anche con un solo spettatore, il comico non può discostarsi dalla propria natura sociale. Non posso disgiungere, nel mio mestiere, il contenuto tragico, o solo commovente, dalla forma comica. Credo sia l’unico modo per arrivare al maggior numero di persone possibile.
Una nota sui “personaggi” è d’obbligo. Come dicevamo, i personaggi non sono “naturalistici”, quello che dico ai miei attori è di concentrarsi su toni cartoon, questo è più facile da afferrare per un linguaggio teatrale moderno rispetto alla chiave che voglio usare, e cioè quella della commedia dell’arte. Nella commedia dell’arte non abbiamo “profondità” di personaggio, i tipi sono archetipi e sono tagliati con l’accetta, vanno dritti con la loro fissa, non ci sono sfumature, la sfumatura è l’ossessione degli attori moderni per i quali più un personaggio si allontana da se stessi, più vuol dire che l’attore è bravo. Non è il mio metro di misura, la credibilità dipende dalla convinzione e dall’umanità che l’attore riesce a far passare. Anche perché, nel momento in cui il pubblico si distrae a pensare che l’attore è bravo, significa che non si vede più la maschera, l’attore è in primo piano con il suo ingombrante ego, ma il personaggio rimane sullo sfondo, sfocato e inservibile per il pubblico: il miglior lavoro d’attore è quello che nasconde l’attore e fa avanzare il personaggio. Infilare dieci toni diversi in un monologo serve forse a vincere qualche premio, ma non serve al pubblico, non serve alla comprensione del testo. C’è un’umanità sofferente nella sbruffoneria dei personaggi de La Cativìssima, sono cattivi per tradizione locale, ma incutono nello spettatore più compassione che odio. Il ritmo indiavolato delle scene sembra nascondere quest’angoscia esistenziale, che prende tutti i personaggi, anche quelli positivi, come il personaggio della blogger, la quale vorrebbe andare a fondo della verità e viene costantemente zittita da tutti.
Infine bisogna sottolineare il gioco del teatro, che porta lo spettacolo ad essere letto a più livelli, a seconda della preparazione degli spettatori. I più attenti riconosceranno alcuni schemi narrativi dell’Ubu roi di Jarry, ma anche citazioni da Shakespeare o da Beckett, ammiccamenti a Ben Jonson, sconfinamenti nel teatro greco, ma chi non avesse frequentato queste letture, assisterà ad una storia autonoma, che gira anche ignorando i precedenti riferimenti.
Insomma, è teatro popolare quello de La Cativìssima, che vuole arrivare anche a chi a teatro non ci va mai. Parla del pensiero dominante nel nostro tempo: quello della cattiveria. Parla di un tempo nel quale è proibito semplicemente essere buoni, nel quale l’aggettivo “buono” è riferito solo al cibo dei reality, che nessuno può assaggiare, un tempo nel quale se uno si permette di essere buono viene definito sprezzantemente “buonista”.
Natalino Balasso