Di Carmelo Alberti
(Drammaturgia.it)

Procedendo dalle varianti che esistono tra Una bisbetica domata e La bisbetica domata, vale a dire tra lo schematismo di un lavoro giovanile e l’efficacia del capolavoro successivo, Piermario Vescovo definisce una rappresentazione che utilizza, anzitutto, il dialetto veneto; inoltre, recupera dalla prima edizione che, invece che a Padova, è ambientata ad Atene, come la coeva commedia del Sogno di una notte di mezza estate, la cornice dedicata alla vicenda “sognata” dal calderaio ubriacone Christopher Sly, dinanzi al quale una compagnia cortigiana recita la vicenda amorosa delle sorelle Caterina e Bianca. Conta, infatti, in questo adattamento, nato in seno all’Estate Teatrale Veronese 2009 per il palcoscenico en plein air del Teatro Romano e poi ripresa in vari teatri al chiuso, messa in scena da Paolo Valerio e dallo stesso Vescovo, il sottotitolo “commedia piacevole recitata in sogno in lingua familiare e rustica da nove donne e un ubriaco”.
 
Nell’ambito del teatro di giro, un tempo era consuetudine proporre trasposizioni dialettali dei capolavori, soprattutto quelli di Shakespeare, costruite per lo più sulla verve creativa di un grande interprete. Cesco Baseggio, per esempio, ha realizzato un Mercante di Venezia in veneziano, Eduardo De Filippo ha lasciato una meravigliosa traslazione in napoletano della Tempesta.
 
Stavolta, il cardine dell’operazione è costituito dall’accostamento tra l’esilarante ed esuberante comico Natalino Balasso e la recitazione di nove attrici, capeggiate dalla brava Stefania Felicioli, che si suddividono generosamente i vari ruoli, definendo un rovesciamento della supremazia maschile che connota l’opera originale.
 
Vescovo, che è un profondo conoscitore della vivacità del teatro cinquecentesco, collega la sua riduzione alla vitalità della commedia presso le corti rinascimentali e, segnatamente, alla drammaturgia veneziana e veneta, che certamente, per vie dirette o indirette – è conosciuta dalla cerchia degli scrittori elisabettiani e da Shakespeare. Pertanto, mentre abbrevia la trama del litigio-scontro tra Petruccio, gentiluomo veronese, e Caterina, bisbetica padovana, esalta con misura la presenza del beone Trufo, che ha la tendenza a sognare, soprattutto quando la sbronza lo sospinge a distendersi sulla nuda terra, mentre intorno latrano cani da caccia e appaiono stuoli di avvenenti giovinette.
 
La messinscena sfrutta la confusione tra il piacere del sogno e l’immaginazione della realtà, trasportando Sly-Trufo al centro dell’intreccio: costui si sveglia sopra un letto comodo e fragrante, scoprendosi ricco e sposato a un’avvenente signora, circondato da un coro di dolci fanciulle che gli spiegano come il suo sonno sia durato ben quindici anni. Insieme alla sua piccola corte assisterà ad una recita “piacevole”, della quale egli stesso sarà protagonista nelle vesti di Petruccio.
 
Dietro la scrittura dialettale, che gli interpreti colorano d’inflessioni di varie aree provinciali, si avverte un raffinato sistema di rimandi colti, dai Suppositi di Ariosto alle maniere di Ruzante, insieme al gusto di dilatare la battuta, sfruttando la materialità della parola veneta.
 
Natalino Balasso agisce consapevolmente da protagonista, accentuando la propensione per il divertissement puro e per la modulazione linguistica paradossale, con venature ruzantesche; la sua parlata cantilenante si muove dalla stupefatta confusione dell’ubriaco alla prepotente serenità del marito-padrone. Stefania Felicioli predilige una soluzione recitativa che possa tutelare la coerenza aristocratica della doppia parte Dama-Caterina, a lei assegnato: è una bisbetica consapevole, attratta più dal desiderio di libertà che dal capriccio. Le altre attrici, che con slancio vestono i panni dei personaggi della commedia, si affidano a una verve interpretativa naturale, al gioco del travestimento, al piacere del gioco onirico; i vari passaggi dai personaggi femminili a quelli maschili, e viceversa, accentuano la dimensione del gioco iniziale, una sorta di capovolgimento della logica maschilista, anche se la resa, talvolta, si rifugia nello stereotipo.