di Gilda Tintorio (Lecco News – 1 dicembre 2021)
LECCO – Dopo la forzata “scorpacciata” di virtualità imposta dall’emergenza sanitaria, è bene ritornare alle radici terrigne della nostra tradizione teatrale.
Guida d’eccezione in questa riscoperta è il grande Natalino Balasso, comico d’esperienza e di acuta sensibilità, capace di riflettere con disincanto sulle storture dell’oggi e di esplorare le mille sfumature della risata. Si tratta di un riso mai scontato, che fa oscillare le fondamenta del nostro mondo, lo rivolta come un calzino e ti squaderna davanti agli occhi la sua nuda assurdità.
Questa volta Balasso porta a Lecco Balasso fa Ruzante. Amori disperati in tempi di guerra, la sua rivisitazione della drammaturgia di Angelo Beolco (detto il Ruzante dal nome del suo protagonista), autore del Cinquecento, ricordato anche da Dario Fo come il più grande prima di Shakespeare. Non è difficile capire che Fo, come naturalmente anche Balasso, in lui amano la vena sperimentale, l’uso creativo del dialetto padovano e la denuncia sociale di una voce anti-sistema. Il personaggio di Ruzante creato da quelle antiche commedie è infatti il villano, figlio di una cultura contadina che conosce la durezza del lavoro, i morsi della fame, e si abbandona con spontaneità alle gioie del cibo e del sesso.
In questo spettacolo (regia di Marta Dalla Via e produzione Teatro Stabile di Bolzano) Balasso riscrive una “drammaturgia ruzantiana”: non un’operazione filologica o ‘archeologica’, ma una riscrittura appunto, che incorpora passaggi riconoscibili delle commedie e lavora su temi e personaggi di quel mondo campestre e primordiale, così distante dalla nostra sofisticata civiltà tecnologica. Una semplicità ruvida e a tratti crudele, segnalata anche dai costumi in jeans (di Sonia Marianni), logori, congiunti, in un bell’effetto di look da lavoro e di carattere forte. Notevoli anche le trovate di scena, con steccati, porte, barche mobili, disegnati in tinte forti e mano quasi infantile (di Roberto Di Fresco), per non parlare dell’esilarante vacca da mungere, costituita da un appendiabiti a rotelle e altri accessori creativi.
In scena si muove un trio affiatato. Andrea Collavino è il rivale d’amore di Ruzante, abile nel passare dalla disperazione alla maledizione (la sua donna è scappata con un pastore slavo: che gli muoiano tutte le pecore, ognuna di morte diversa!), al tarlo della gelosia e della macchinazione (novello Jago, instilla dubbi sulla sposa di Ruzante), fino al cinismo del “mors tua vita mea”. Ben caratterizzata è anche la Gnua (Marta Cortellazzo Wiel), contadinotta appetitosa, dominatrice ma anche succube, vittima della paura e della guerra, e infine sedotta dal sogno di una vita migliore a Venezia.
Ruzzante (Balasso) invece rimane sempre fedele a se stesso. Dapprima trascorre la sua vita tranquilla nella campagna padovana, contento della Gnua e del suo campicello, finto ingenuo “pampalugo” dalla “faccia imbietolita”. L’esile trama degli eventi, in questo mondo rurale atemporale, è retta dal linguaggio: una base di fiorentino antico, ricamato di venetismi spassosi, che Balasso ha ricreato prendendo a modello i diari di Antonio Pigafetta, navigatore vicentino e contemporaneo del Beolco. Ed ecco che questo Ruzante artefice della lingua sa essere candido, volgare, poeta, finto spagnolo, e non trascura nozioni improbabili di astronomia, disquisizioni sul prepuzio di Gesù, pregiudizi su ebrei e zingari.
Ma poi arriva la guerra. Con uno scolapasta calcato in testa e una tunica sbrindellata da crociato recuperata dal baule del nonno, Ruzante si avventura fra i tuoni delle bombarde, per necessità e non certo per convinzione, perché spera di raggranellare un bel bottino. Tornerà sano e salvo (perché la prima regola è “il salvamento di sé medesimi”, in quanto “a morire son buoni tutti, a salvare no”), ma tutto è cambiato, e anche la moglie gli rinfaccia di essere un pezzente, per giunta senza nessuna cicatrice. L’atmosfera (ora siamo a Venezia, fra le nebbie e lo sciabordare delle onde) si fa plumbea, Ruzante è amareggiato, ma non ha perso la sua vena inventiva. Riuscirà la cinica Gnua a resistere a quel suo amore concreto e linguacciuto, capace di snocciolare paragoni irresistibili (le gote come prosciutti, le mani da badile, il “visetto donnarello”)?
La cantilena veneta di Balasso procede come un fiume tranquillo, e quando meno te l’aspetti, ecco il guizzo: la parola deformata, il paragone eccessivo, il rovesciamento in assurdo. E lo sperimentiamo anche nel momento più drammatico, quando succede l’imprevisto: gli effetti di fumo sul palco per simulare la guerra hanno fatto scattare l’allarme del Cineteatro Palladium. Da grande mattatore qual è, non perde la calma, e un po’ Balasso e un po’ Ruzante, gestisce il tutto con verve comica: cammina avanti e indietro, ci fa la cronaca dell’affannarsi attorno al quadro-comandi che avviene nelle quinte e ci intrattiene con lazzi e commenti. Un bell’esempio di teatro improvvisato, senza stonature, condito da tante risate. E ti viene il dubbio che anche questo incidente facesse parte del copione…Il Beolco avrebbe senz’altro approvato.
Potremo rivedere Balasso, questa volta sulla rete dal 23 dicembre, nel suo secondo contro-film di Natale, Il Conte Nikolaus (https://www.natalinobalasso.it).