Una certa umanità vecchio stampo e in bianco e nero nella rivisitazione moderna dell’Arlecchino di Valerio Binasco

di Giuliana Prestipino (FermataSpettacolo * 5/11/2018)

Si è appena conclusa con un grande successo di pubblico la prima tappa della tournée di Arlecchino servitore di due padroni che ha aperto la Stagione del Teatro Stabile di Torino 2018-2019 con Valerio Binasco alla guida della direzione artistica nel suo primo anno di mandato. Ed è sua la regia del capolavoro di Goldoni scritto nel 1753 nella sua versione completa per cucirlo alla perfezione su Antonio Sacco, stella del firmamento della Commedia dell’Arte.
Non aspettatevi la teatralità settecentesca, le maschere e una certa comicità fisica tutta frizzi e lazzi. Binasco si discosta dal solco della tradizione di Strehler, sfida per altro impossibile, per imbattersi su un cammino totalmente diverso esplorando più che il personaggio, le potenzialità del testo. E per far questo utilizza due cifre stilistiche che subito colpiscono: il richiamo al neorealismo e una venatura cupa, tragica, che attraversa lo spettacolo ma che non ne offusca la potenza comica, che viene invece esaltata proprio dalla commistione dei due generi, tragico e comico.
“Per quanto sarà possibile, tenterò di dare a questo testo un sapore moderno, cercando di restituire l’umanità e la credibilità dei personaggi anche quando la tentazione del formalismo teatrale fine a se stesso ci sembrerà irresistibile” ci tiene a precisare Binasco. Il regista ha svelato nell’incontro con il pubblico a Torino all’interno di uno dei Retroscena che, rileggendo il testo di Goldoni, rimase colpito più che dal personaggio irriverente della maschera, dal cuore della storia: due coppie di amanti che vengono separati l’una da un’avventura tragica, l’altra da futili motivi. Concentrandosi sulle loro storie e cercando di andare oltre i dialoghi artificiosi e le mossette da farsa, Binasco non ha più visto niente di divertente e di ciò che è tipico della Commedia dell’Arte. Questo punto di vista ha fatto nascere la voglia di raccontare questa storia partendo da una domanda “E se questa storia fosse vera?”.
È chiaro come in questo modo Arlecchino non sta più al centro e tutti gli altri personaggi, che sembrano gravitargli intorno al suo servizio per far ridere il pubblico, diventano protagonisti. Qui Arlecchino, pur mantenendo tutta la sua vis comica e l’irriverenza grazie ad un eccezionale Natalino Balasso che strappa applausi e risate a scena aperta, sembra farsi spalla, detonatore che innesca l’esplosione e la visibilità degli altri personaggi. E così l’omicidio iniziale se in Goldoni serviva da pretesto per accendere la miccia, rimanendo sullo sfondo, in questa rivisitazione il tema si fa più pesante e grava sui personaggi di Florindo e Beatrice che non risultano più delle macchiette, personaggi superficiali, ma tormentati dalla consapevolezza di aver commesso qualcosa di terribile. Si avverte così tutta la disperazione e l’urgenza della trasformazione di Beatrice, interpretata dall’intensa Elisabetta Mazzullo, che convince nella sua ambiguità.
Il regista racconta con realismo ed empatia un”certo tipo di umanità” che oltrepassa i confini del teatro per il teatro. “E’ il richiamo di una tipologia umana di vecchio stampo, l’Italia povera ma bella di sapore paesano e umilmente arcaico che è rimasta attiva a lungo nel nostro Paese, sia sulla scena che nella vita reale, ha abitato il nostro mondo in bianco e nero, si è seduta ai tavoli di vecchie osterie, ha indossato gli ultimi cappelli, ha assistito al trionfo della modernità con comico sussiego, ci ha fatto ridere e piangere a teatro e al cinema con le “nuove maschere” dei grandi comici del Novecento, e poi è svanita per sempre, nel nulla del nuovo secolo televisivo.”
Per stessa ammissione dell’attore che incarna Arlecchino, Natalino Balasso, il comico veneto noto al grande pubblico per aver lavorato a Zelig e come autore di Telebalasso su YouTube, è la prima volta, con questo allestimento, che si capisce che Arlecchino ha una storia, che è un racconto corale, perché è stato fatto un lavoro di restituzione della drammaturgia. Binasco ha scelto Balasso perché colpito dal suo essere comico suo malgrado, tipico delle anime tenere che prendono su di sé il peso del ridicolo, dei difetti umani, senza bisogno di additarli nell’altro come accade in una certa comicità più volgare, da televisione. E Balasso ci offre quella comicità lunare, astratta, un po’ alla Totò un po’ alla Buster Keaton che lascia disarmati e a tratti commuove. Nel suo essere primitivo e infantile, un bambino che vuole tutto e subito e che non accetta mediazioni oggi questo personaggio non potrebbe esistere in una società che vive di compromessi, ma continua a divertirci perché in fondo vorremmo essere come lui, fantasiosi, iirriverenti e un po’ naïf.
Binasco, che è prima di tutto attore, ci tiene a precisare che il suo non è un teatro di regia ma d’attore. Nella costruzione di uno spettacolo ama seguire le tracce dell’incontro tra attore e personaggio che molto spesso lo conducono a modificare la regia per seguire le suggestioni degli interpreti. I personaggi così non sono dati una volta per tutte sul copione, ma diventa un’avventura affascinante vederli emergere poco per volta. Un cast straordinario di attori dove tutti, a proprio modo, sembrano essere protagonisti.
La tournée, partita l’8 ottobre a Torino, prosegue in tutta Italia fino al 16 dicembre.