di Maura Sesia (Sipario * 16 ottobre 2018)

Un bell’affresco a tinte pastello per inaugurare la stagione dello Stabile torinese, Teatro Nazionale. Con una scenografia leggera di pannelli e teli dipinti calati dalla graticcia, con le porte, vere, di legno, ma incardinate nel vuoto, con musiche icastiche e mai predominanti, con una recitazione sfrontata, schietta, rapida e fresca, adeguatamente ritmata, miscelano il dialetto veneto (ma del tutto comprensibile) all’italiano, in una cornice anni ’60, questo Arlecchino tocca e porta via per quelle tre ore scarse di durata, che non si sente. E’ un poveraccio dei giorni nostri, che si deve inventare un doppio salario per sbarcare il lunario, è simpatico ma non buono, non conquista per empatia, non è positivo, ma di fragrante verosimiglianza. E Balasso, statuario, dai silenzi opportuni, è bravo. Come lo son anche Fabrizio Contri, tremebondo Dottore, Marta Cortellazzo Wiel, tenera Smeraldina, Michele Di Mauro, autoritario Pantalone, Denis Fasolo, focoso e infantile Silvio, Elena Gigliotti, appassionata e confusa Clarice, Gianmaria Martini, irruento Florindo, Elisabetta Mazzullo, dubitosa Beatrice en travesti, Ivan Zerbinati, scostumato Brighella. Ci vuole coraggio, e il regista Valerio Binasco ha già dimostrato di averne, ad allestire una commedia italiana tra le più conosciute al mondo proprio grazie ad una messinscena di eccezionale longevità griffata dal maestro Giorgio Strehler, che addirittura ha imposto universalmente la sua denominazione alla pièce: Arlecchino servitore di due padroni non esiste, è il titolo di Strehler, Goldoni scrisse Il servitore di due padroni. Questo è un Arlecchino tutto diverso, misterioso e piacevolmente da scoprire. Senza toppe, smascherato (nessun carattere indossa maschere), flemmatico, Arlecchino con l’espressione del viso, con i muscoli facciali restituisce la fissità del tipo. Storia immarcescibile di amori contrastati, di donne all’inseguimento dell’emancipazione, di violenze e inganni, di una messe di sotterfugi per raggranellare qualche spicciolo o cibaria o comodità in più. Un contesto menzognero e meschino, in fondo mesto, e che il lavoro restituisce con onestà, perché non solo di risate è fatta questa commedia amara, pur contenendone tante. Allestimento stratificato e ricco, per l’evidente soddisfazione del pubblico odierno, scevro di giudizi preconfezionati.