Balasso e il Veneto sopra le righe

“La cativissima-epopea di Toni Sartana” entusiasma il Goldoni di Venezia. Nella commedia dalle risate amare, l’attore polesano riflette sulle contraddizioni del Nordest

(Corriere del Veneto * 02/11/2015)

La cativissima -epopea di Toni Sartana” ha entusiasmato il teatro Goldoni di Venezia da mercoledì a domenica. Sei attori di grande talento (Francesca Botti, Marta Dalla Via, Andrea Pennacchi, Silvia Piovan e Stefano Scandaletti) capitanati da Natalino Balasso hanno presentato il nuovo testo dell’attore veneto. Balasso inventa un mondo sopra le righe che denuncia con ferocia le contraddizioni sociopolitiche ed economiche di una regione un tempo definita la locomotiva d’Italia, un mondo governato da “schei” da arraffare, quello del ricco nord-est che poi si fa universale. “Trasferiscimi i soldi delle tasse nel mio conto personale” “ma ci vogliono quattro firme” “ecco cosa blocca l’Italia: la burocrazia”: in uno scambio tra i personaggi che ruotano attorno a Sartana il senso della commedia intrisa di risate amare. Un clima di fantapolitica, di vizi, tradimenti e arroganza, falso, a tratti grottesco. “Posso impegnarmi a dire -scrive Balasso- che questa sarà una commedia molto divertente intrisa di una comicità che non ritengo spocchioso definire tipicamente mia mista a tratti di amaro e ineluttabile. Ho voluto curare anche la regia di questa commedia perché per una volta credo di avere identificato un percorso che somiglia molto a quello che cerco che sia il mio teatro: popolare innanzitutto, perché sono dell’idea che se vogliamo che a teatro ci vadano tutti dobbiamo anche riuscire a parlare a tutti, ma cercando di non essere mai scontato”. Obiettivo raggiunto.

Balasso assessore ai “schei” ride del Veneto rapace

Applausi per l’attore rodigino in scena anche in veste di regista e autore “La cativissima” è al Teatro Goldoni fino a domenica. Dopo arriverà a Padova

di Nicolò Menniti Ippolito (La Nuova Venezia * 30/10/2015)
VENEZIA

Ha ragione Natalino Balasso quando al termine della prima al Goldoni di Venezia chiama vicino a se Massimo Ongaro, il direttore dello Stabile del Veneto, dicendo: “Abbi il coraggio delle tue scelte”. Lo dice ridendo, perché la prima è andata bene, perché il pubblico ha riso e applaude, ma certamente questa “La cativissima. Epopea di Toni Sartana” è una scommessa difficile. Lo spettacolo, in scena al Goldoni fino a domenica e la settimana prossima al Verdi di Padova, inaugura non solo la nuova stagione, ma anche la nuova gestione dello Stabile, diventato Teatro Nazionale. E invece di andare sul sicuro, Massimo Ongaro ha scelto una novità assoluta, che poteva anche scandalizzare (e forse in parte lo ha fatto) il pubblico tradizionale del Goldoni. Perchè, certo, Natalino Balasso è personaggio conosciuto, amato dal pubblico, ma in questo caso indossa non la veste del comico, ma quella dell’autore, del regista, dell’interprete di una commedia complessa, che dura più di due ore, provocatoria, molto contemporanea nonostante la lente deformante del grottesco, o per meglio dire della comicità nera e apocalittica che contraddistingue Balasso.
“La cativissima” parte da un testo molto amato, ma anche molto contestato nel teatro novecentesco, come l’ “Ubu roi” di Alfred Jarry. Non è una riscrittura, non è un’attualizzazione, se si vuole la distanza è anche notevole, ma il legame c’è, è forte, e conta. Toni Sartana, il personaggio centrale di “La cativissima” e dell’intera trilogia di cui il testo fa parte, è come Ubu un violento e un fanciullone, crudele aldilà di ogni limite ma anche assolutamente inconsapevole. E’ estremo in tutto, nelle imprecazioni come nei progetti. Balasso ha trasferito il personaggio da una Polonia di fantasia a una regione Serenissima, che certo è il Veneto, ma potrebbe anche non esserlo: perché l’ascesa di Sartana per diventare assessore ai “schei”, poi assessore unico, poi invasore della vicina regione Furla è, aldilà dei paradossali eccessi, quella di qualsiasi uomo di potere, anche se non per tutti il sogno fondamentale è avere casa a Jesolo e Asiago. Nella vicenda entrano poi ultrà di “Dominanza rodigina”, il sogno di presentare “Miss Consorzio”, i rifiuti e le rapine in villa, la manipolazione mediatica con giornalisti cloni e cloni giornalisti, un intero mondo dominato dalla rapacità cui tutto è asservito.
Balasso racconta tutto questo con la sua comicità e con la sua lingua: quel suo veneto di terra di grande efficacia, cui si affiancano in questo caso altri accenti, quelli di una serie di attori veneti (Stefano Scandaletti, Andrea Pennacchi, Marta Dalla Via, Silvia Piovan, Francesca Botti) che ben si integrano in una dimensione teatrale che sembra evocare in qualche modo anche a quella dei cartoon, perché i tratti dei personaggi sono tutti marcati, deformati, uni-dimensionali. Toni Sartana e i suoi compagni di avventura sono un po’ come i Simpson o i Griffin: tanto più veri quanto più lontani dalla verosomiglianza. Non a caso si muovono in una scena minimalista ma plasmabile, una sorta di sfondo che si presta a tutte le soluzioni. Si ride, ovviamente. La sensazione è anche che si riderà di più quando i meccanismi saranno più oliati e la sintonia col pubblico più immediata. E poi però c’è anche quel senso di un mondo irrimediabilmente devastato dalla sete di potere, denaro, piacere, grazie alla quale i Sartana della situazione, col loro nome da pistolero, sopravvivono sempre.

Cativissima

La Cativìssima
(Epopea di Toni Sartana)
commedia di Natalino Balasso

La cativìssima (Epopea di Toni Sartana) è la prima commedia di un progetto di trilogia che ho preparato per il Teatro Stabile del Veneto.

L’idea è quella di creare l’epopea di un personaggio surreale e fuori dagli schemi, Toni Sartana, appunto, il quale non ha mezzi termini, non ha remore morali, è totalmente ignaro di ciò che significa correttezza.
Toni Sartana tradisce chiunque pur di raggiungere il suo scopo e il suo scopo si direbbe sconosciuto a lui stesso. Vuole possedere per il semplice gusto del possesso. Per lui le persone, dalla più prossima alla più sconosciuta, sono solo strumenti.
Il personaggio di Toni Sartana sarà interpretato da me.
Le commedie sono scritte in italiano, ma alcuni personaggi usano un linguaggio che, seppur italiano, è intriso di venetismi e pronunce locali e giungono a creare una di quelle che Pasolini chiamava “le tante lingue dell’italiano”.

In questa prima commedia assistiamo alla resistibile ascesa di Toni Sartana, da semplice sindaco di un piccolo paese di campagna, fino ai vertici del suo partito, in seno al quale tradirà anche gli amici più fidati pur di diventare la massima carica della Regione Serenissima: Asessore ai Schei.
Ma questo non gli basterà, vorrà giungere a conquistare anche la confinante Regione Giulia all’inseguimento del Potere fine a se stesso. In questo clima da fanta-politica, in un tempo non definito, che potrebbe essere il futuro, Toni Sartana riluce come una sorta di Ubu veneto; fa ruotare gli eventi attorno a sè, istigato da una moglie, la signora Lea, che, come una moderna lady Macbeth, è forse più crudele di lui.
Tutto questo, com’è prevedibile, porterà ad una rovinosa caduta ma, come Ubu, Sartana ha la consistenza dei pupazzi di gomma, non si fa mai male, casca sempre in piedi. Egli è salvato dalla sua stessa inconsapevolezza.

Posso impegnarmi a dire che questa sarà una commedia molto divertente, intrisa di una comicità che non ritengo spocchioso definire tipicamente mia, mista a tratti di amaro e ineluttabile. Ho voluto curare anche la regia di questa commedia perché, per una volta, credo di avere identificato un percorso che somiglia molto a quello che cerco che sia il mio teatro: popolare innanzitutto, perché sono dell’idea che se vogliamo che a teatro ci vadano tutti dobbiamo anche riuscire a parlare a tutti, ma cercando di non essere mai scontato.

Natalino Balasso

Foto di Cativissima 2015
Foto di cativissima 2016

Velodimaya: Balasso, Schopenhauer e il puffo

Il pop incontra la filosofia e ne esce Velodimaya by Natalino Balasso. Un’occasione per ridere e pensare alle nostre sciocche certezze.
di Omar Manini (www.whipart.it * 15/12/2014)

Teatro Nuovo, Udine – Natalino Balasso porta il suo nuovo spettacolo Velodimaya a Udine per le stagioni crossover di CSS _Teatro Contatto e Teatro Nuovo Giovanni da Udine e riempie la sala di buon umore, scavando con ironia e sottigliezza tra le pieghe della nostra realtà. 


Prendendo in prestito dall’amico Arturo (Schopenhauer) il concetto chiave di una realtà illusoria e impossibile da oggettivare in quanto trasfigurata, nascosta da un velo, ci aggiunge il suo personale estro comico che ha nel puffo proiezionista l’esempio più folle e insieme lucido. 


Un esserino inserito nella testa di ognuno che ci fa vedere ciò che noi desideriamo, moltiplicando così le possibili chiavi di lettura e rendendo impossibile stabilire un unico punto d’incontro. 


Ecco che Balasso, con estrema, consumata naturalezza, costruisce un monologo che evidenzia con mille esempi e paragoni quanto la vita che viviamo sia immersa in una specie di nuvoletta che sorvola la realtà delle cose per rileggerla dal nostro interessato punto d’osservazione. 


Il risultato di tutto ciò è un’inconsapevole menzogna che diamo in pasto a noi stessi e agli altri, spesso combattendo e sopraffacendo in nome di ideali alterati. 


Alla fine ridiamo di noi e dei nostri limiti, ci riconosciamo in comportamenti che tutto hanno a che fare tranne che con la fede nella scienza esatta così esaltata, divinizzata. 


Velodimaya è una specie di mappa del pensiero contemporaneo nella quale il ridere è una conseguenza necessaria del racconto, non una finalità. Navighiamo attraverso il racconto dei desideri e delle paure dei nostri attuali compagni d’avventura in questo lembo di terra. […] Siamo dentro un film, ciascuno di noi recita un personaggio, chi meglio, chi peggio, ma tutti facciamo finta. […] Visti da lontano, in questo nostro affannarci, anche nel nostro inciampare, facciamo ridere. (N. B.) 


In una scenografia minimale – un pulpito, una bellissima micro-città di cartone sullo sfondo – il Nostro si chiede con un bellissimo paradosso se il suo sia teatro, privo com’è di una storia, di un attore accademico, di un’impronta produttiva classica o sperimentale, e poi ci dimostra come solo sapendo raccontare i vizi e le contraddizioni dell’umanità si possa fare Teatro di qualità. 


Divertente e amaro insieme, lo show è un nutrimento per la mente sicuramente non esente da pecche (onestamente la parte dedicata al linguaggio e alla lingua è una parentesi stanca), ma riscattate con pagine di alta qualità.



VELODIMAYA


testo scritto e interpretato da Natalino Balasso

scene/luci: Rita Scarpinato

luci a audio: Suonovivo BG

musiche: Nathaniel Basso

e… organizzazione Simonetta Vacondio

Produzione durata Voto
Teatria srl
140 min. senza intervallo 



7+ 


Con Balasso al Ctm la risata è umana e popolare

di Simone Tonelli (Giornale di Brescia * 22/02/2015)

Ci sono cose che uno non immagina neanche che potrebbero far ridere…Invece…Un’antologia (un’enciclopedia?) italiano-veneta della risata. Vivente. E’ Natalino Balasso, l’altra sera, venerdì, al Teatro Ctm di Rezzato, per tre ore (tra uno scoppio di ilarità e l’altro, lui trascina il pubblico e il pubblico trascina lui), in scena su invito del Cipiesse con “Stand Up Balasso”, un “il meglio di” comico per una platea da tutto esaurito.
Si comincia con l’attore di Porto Tolle che, inforcati gli occhiali, legge improbabili definizioni della categoria “amici veneti” (“Non ascoltano i pettegolezzi sul tuo conto. Ne mettono in giro di nuovi”). E il clima, per complicità, è un po’ quello. Lo stile è da affabulazione comica: “Il 90% di quello che sappiamo ce l’hanno raccontato, non l’abbiamo vissuto. Tanto che, se una cosa non la racconti, pare che non esista”.
E così Balasso dà il via alla narrazione, anzi, alla digressione, perchè ogni storia ne nasconde sempre un’altra, e ogni battuta diventa un’Odissea (anche di Ulisse e Polifemo e, prima, di Paride e Priamo si parla) di facezie.
La storia è passione sincera (Una storia orizzontale, di gente che migliaia di anni fa aveva i nostri stessi sentimenti, e ci parla ancora oggi), ma anche virtuosistico gioco di parole (dalla Mesopotamia spunta un racconto sui “somari dei sumeri semiti e non semiti”).
L’antico, e amato, dialetto pavano diventa spasso per una lingua che perde tutte le consonanti (“i gà igà i gai”, per “hanno legato i galli”). Ci sta anche uno “Stabat Mater” pietoso per chi soffre, una leggenda comica con morale su una divina punizione (una portentosa diarrea) per un ricco avido.
Con Balasso, comicità diventa far parte di un’unica grande storia comica, dove alto e basso, dialetto e lingua, miti e poesia, umili e potenti si confondono, si ribaltano e la risata si fa umana, condivisa, popolare nel senso più bello.

Alto, basso e Balasso: raffinato e popolare all’Arena del Sole

di Chiara Mignani (Gazzetta di Parma – 08/12/2014)

Trascinante ed esilarante, Natalino Balasso ha squadernato con incredibile energia il suo repertorio “storico” nello spettacolo “Stand Up Balasso”, sabato sera all’Arena del Sole di Roccabianca. Insieme raffinato e popolaresco, capace di catturare l’immaginazione, ricco di riferimenti letterari preziosi (Omero, Ruzante, Luigi Meneghello) e senza paura di mescolare alto e basso, di scompaginare e giocare con i registri del racconto, in sintesi: Balasso è un grande narratore. Formidabile è la lingua usata dal comico, la sua cadenza e il suo lessico sghembo, un grammelot che nasce nel nord est, una lingua un po’ da infanzia, decisamente spassosa ma anche tenera, perfetta per raccontare storie.
Possono essere grandi storie come i racconti omerici, che il comico rivisita con una contaminazione felice, senza mai scadere nel didascalico o nella banalità; nella sua versione l’Odissea “scomincia”, Polifemo è “imbraco come una scimia” e Ulisse quando finalmente torna ad Itaca fatica a riconoscerla “perché hanno costruito tante nuove rotonde”.
Possono essere piccole storie come il racconto del ménage famigliare (ed alcolico) del Torbolo e di sua moglie Marisa, vite marginali che danno forma ad un’epopea ruspante del nord est.
Ma tutte, grandi e piccole, arrivano con forza al pubblico, sono animate dalla passione e dall’intelligenza del narratore, che la rafforza con una straordinaria mimica e una sapiente gestualità. Impagabile è la lezione sul “pavano” (dialetto padovano) dell’interno: “una lingua così difficile che anche i padovani quando si parlano tra loro non si capiscono”.
Irresistibile l’incursione nell’archeologia onirica con il pezzo “il somaro dei sumeri”: uno scioglilingua vertiginoso e virtuosistico. Il teatro era tutto esaurito, tanti gli applausi a scena aperta, il pubblico è stato completamente conquistato dalla travolgente performance di Balasso, lunghissimi gli applausi finali.

Con Balasso sono risate extralarge

“In fondo siamo tutti dentro un film”
di Fabiana Dallavalle (Messaggero Veneto * 14/12/2014)
UDINE

Il titolo è decisamente impegnativo anche se scritto tutto attaccato. Velodimaya, ultimo nato a casa di Natalino Balasso e primo appuntamento comico condiviso a Udine, tra le stagioni di Teatro Contatto di Css Teatro Stabile di Innovazione Fvg e del Teatro Nuovo, porta in scena una ventata di risate extra-large, (due ore e mezza di spettacolo!) e fa aprire addirittura la terza galleria.
Il concetto di Velo di Maya preso a prestito, niente meno, che dal filosofo Schopeanhauer e trasferito sul palcoscenico, parla in realtà di temi piuttosto seri, di verità nascoste, vere o presunte, di guerre necessarie, di infanzia, educazione e coscienza individuale. Certo il linguaggio è popolare e ironico, spesso mediato dalla tirata in dialetto, così giusto per tranquillizzare gli animi degli spettatori perché il dramma, diceva Eduardo, “si rappresenta meglio con la commedia”.
Infatti, mentre sei lì che te la ridi, Balasso riesce a far leggere al cervello in modalità “rappresentazione teatrale” tutta la serie di drammatiche fregature alle quali gli uomini e le donne vanno incontro subito dopo il primo vagito. Si ripassano, sempre tra una risata e l’altra, alcune gioviali nefandezze del vivere, come ad esempio che le nazioni moderne non sono nazioni, ma affari, risultati di compravendite. “Stiamo giocando a un gioco in cui le carte sono truccate e le regole sono tutte da scoprire”, dice l’instancabile Balasso. Il gioco è infatti antico e illude le pedine di fare un passo avanti, mentre in realtà le spinge a prendere la rincorsa per tornare esattamente al punto di partenza. E ancora “siamo dentro un film, ciascuno di noi recita un personaggio, chi meglio, chi peggio, ma tutti facciamo finta”. A questo punto il nostro personaggio è costretto a indagare, come fosse il detective di un film giallo, ci sono solo prove indiziarie, il quadro non è chiaro”. Certo il velo non si può strappare, pena la perdita di senno o la cacciata dal Paradiso, ma prendere atto che il velo c’è e che ognuno vede e interpreta la realtà a modo suo, è già gran cosa. In ogni caso Velodimaya stimola la capacità innata del cervello di ridere di cose drammatiche, non per mancanza di rispetto, ma per il desiderio di esorcizzare i nostri drammi. Lo sa Balasso che fa assai bene il suo mestiere. Lo capisce il pubblico, che non ride e basta ma pensa. E applaude con calore in finale.

UNA POLTRONA IN PLATEA

Marmirolo: sold out per Balasso filosofo
di Maria Luisa Abate (La Cittadella * 24/10/2014)

Uno splendido sold out ha premiato la serata inaugurale al Teatro Comunale di Marmirolo. L’occasione era ghiotta: l’anteprima nazionale dell’ultimo spettacolo confezionato e interpretato da Natalino Balasso, che non ha presentato i difetti tipici delle anteprima, solitamente necessitanti di limature successive. La messa in scena era infatti perfettamente funzionante, parsa addirittura rodata: sintomo di grande professionalità. Balasso è bravo come attore e intelligente come autore; fin dalle prime battute ha confermato di possedere una vis comica tanto esilarante quanto ricca di sostanza. Il testo ha invitato a pensare ma le risate che ha scatenato, incessanti e irrefrenabili, non hanno presentato retrogusti di pedanteria. Una galoppata di due ore, forse troppe per la formula del monologo, comunque mai tediose, senza che il ritmo abbia registrato alcun calo di tensione. Un ironico trattato di filosofia, nemmeno troppo spicciola, esordito con Schopenhauer da cui è stato preso a prestito il titolo: Velodimaya. Il velo di Maya del pensatore tedesco è uno schermo che impedisce la vera visione della realtà, che inibisce l’essenza del mondo (noumeno) soppiantandola con la trasfigurazione della mente (fenomeno). Uno schermo sul quale la nostra vita viene proiettata, afferma il Balasso-pensiero, finché non ci accorgiamo che il film è un “dannato giallo” e i detective siamo noi, che dobbiamo capire cosa ci sta succedendo. “Dio creò maschio e femmina, proprio come voleva Giovanardi. Da Lui, che ci ama, viene questa vita da incubo: figuriamoci se gli fossimo stati antipatici!!!” E via con i riferimenti biblici intrecciati a ricordi di infanzia in un racconto sinuoso, spiritoso, incalzante. Balasso si è inerpicato sulle parole, alle quali è stato attribuito un significato filtrato da velodimaya linguistici: in realtà una citazione alla metasemantica di Fosco Maraini e alla sua Gnòsi delle fànfole (che ispirò anche la versione musicale del jazzista Stefano Bollani). Il finale non poteva che essere poetico: “la vita è sogno” diceva Calderòn de la Barca, mentre Shakespeare affermava che “siamo fatti della medesima sostanza di cui sono fatti i sogni“. Ben venga quindi il velodimaya di Balasso, grazie al quale abbiamo potuto estraniarci dalle brutture della vita e abbandonarci alla fantasia.

Attraverso quale velo guardiamo la realtà?

Velodimaya di e con Natalino Balasso è andato in scena al Teatro Gordoni di Venezia: un incredibile successo.
di Chiara D’Ambros (Il giornale dello spettacolo – Globalist.it * 29/10/2014)

Al Teatro Goldoni di Venezia nemmeno una poltrona libera per il debutto del nuovo spettacolo di Natalino Balasso, Velodimaya andato in scena il 25-26 ottobre. Con l’ironia e la comicità che lo contraddistingue, Balasso sale sul palco ed esplicita al pubblico di tutte le età presente in sala, l’unicità della situazione teatrale che succede nel qui ed ora e richiede di essere “più o meno” vivi. Racconta insolitamente dell’oggi in questa pièce dopo aver raccontato nei passati spettacoli il mito greco con Ercole in Polesine, di una vicenda successa negli anni ’30 con La tosa e lo storione, dell’anno zero con L’idiota di Galilea. L’attore con la sua usuale parlata dal forte accento veneto la cui musicalità strappa la risata e talvolta favorisce il fluire della narrazione, ribadisce: “Qui ci sono io, là ci siete voi, c’è un teatro e un teatro c’è anche nella vostra testa”. La realtà che vediamo è quella che ci rappresentiamo, da cui la metafora: “Tutti nella testa abbiamo un Puffo che proietta il film della realtà che vogliamo vedere”. La costruzione della realtà attraverso determinati parametri sociali dettati da chi meglio sa raccontarcela, assieme alle credenze cui siamo soggetti, sono il fulcro di questo nuovo monologo che il comico ha scritto dopo due anni nei quali i suoi videoclip a sfondo sociale pubblicati su yuotube nel canale virtuale Telebalasso, hanno spopolato oltrepassando i dieci milioni di visualizzazioni. L’attore-autore torna più volte a parlare dell’educazione citando recenti studi di neurobiologia riguardanti l’apprendimento e raccontando della sua infanzia passata tra un mondo contadino e un collegio di suore. Non mancano echi del mondo bambino raccontato da Luigi Meneghello in Libera nos a malo, quando Balasso bambino si chiede “Cos’è il peccato di accidia?” Trova come unica risposta possibile il fatto che sia una punizione per aver mangiato troppo, per cui ti viene acidità di stomaco. I bambini nascono tutti indistintamente con enormi potenzialità ma il processo di “normalizzazione” cui la società li sottopone, li limita al punto da impedire loro lo sviluppo di autonomia e consapevolezza. Vivere diventa, quindi, un assumersi il ruolo di detective per scoprire, con pochissime prove a disposizione, chi si è e se c’è un’altra realtà possibile oltre a quella che ci è stata raccontata. Troppo spesso incapaci di perseverare nel proseguo delle indagini, ci si affida alla religione spirituale o del lavoro, o a guru che “più dànno risposte certe, meno sanno ciò di cui stanno parlando”. Si cercano troppo spesso risposte che ci consentano di credere a quello che vogliamo credere e che anziché s-velare aggiungono veli alla realtà, talvolta addirittura teli veri e propri com’è accaduto negli Stati Uniti, nel 2003, durante il proclama dell’allora segretario di Stato Colin Powell sulla necessità dell’attacco all’Iraq per sospetto possesso di armi chimiche. In quell’occasione è stato coperto con un drappo scuro il quadro che era sullo sfondo della postazione da cui Powell annunciava la necessità dell’invasione del paese mediorientale. Il dipinto nascosto era Guernica, che Pablo Picasso realizzò dopo il bombardamento aereo della città omonima durante la guerra civile spagnola.

I toni dello spettacolo si fanno via via più amari. Sul finale l’attore citando Oscar Wilde “Se tu dai una maschera a un uomo, costui ti dirà la verità”, indossa una storica maschera veneziana di cuoio e salendo su un pulpito si chiede “Ma qual è la verità?” e svela una verità possibile e cinica del mondo produttivo di oggi, dominato dalla legge del profitto, della prevaricazione dell’altro, dei consumi, delle relazioni alterate. Sceso dal pulpito e tolta la maschera, il palco diventa buio, solo un fascio di luce al centro lo illumina, Balasso senza più cercare la risata racconta di come un tempo eravamo come lupi forse più selvaggi ma certo più curiosi, mentre ora siamo diventati cani ammaestrati. Buio. Applausi, mentre nei pensieri di alcuni spettatori potrebbe risuonare una riflessione di S.Freud sul processo di civilizzazione: “L’umanità ha sempre barattato un po’ di felicità per un po’ di sicurezza”.

Partiamo dal titolo: “Velodimaya”.
Ho deciso questo titolo tra le tante cose di cui si parla nello spettacolo perché voglio partire dal punto di vista cioè non dalla realtà. Molti parlano della realtà ma io vorrei partire da un po’ prima, cioè vorrei chiedere: “quando noi guardiamo un telegiornale, ascoltiamo un radiogiornale, leggiamo un giornale, vediamo un film, cosa abbiamo capito? Questa è la domanda che mi pongo. Ecco perché Velodimaya riprendendo il concetto di Schopenhauer secondo cui la realtà non è direttamente percepibile se non attraverso sfumature che è poi la cosa che diceva Platone. Ma in questa epoca in cui sembra che tutto sia perfettamente documentato, quindi la gente pensa sia più facile accedere alla verità, alla descrizione della realtà, io credo che oggi più che in altre epoche, salta agli occhi questa cosa, ossia che ci sono molte realtà soggettive, ed è molto difficile capirsi quando si parla della realtà… Il bambino è fondamentale, perché quello che noi facciamo è strettamente legato a quello che abbiamo imparato da piccoli. I neurobiologi ci dicono che dopo i primi tre anni è difficile che apprendiamo qualcosa di fondamentale in maniera così veloce come riusciamo a farlo nei primi tre anni. Noi però ai nostri figli nei primi tre anni non insegniamo assolutamente niente. Questo è il primo grande paradosso della nostra cultura, della nostra società. Un maya di 7 anni che vive nella giungla è autonomo, cioè è capace di costruirsi una capanna, di costruirsi il letto dove dormire, sa andare a caccia, sa campare da solo. Nella nostra società i bambini rimangono inetti sempre più a lungo, si parla sino ai due anni, nei quali il bambino è incapace non solo di badare a se stesso ma di resistere un giorno senza presenza di adulti o di altri umani e questo tempo sembra che si dilati sempre di più. Noi siamo sempre più dipendenti da chi ci alleva, ce ne andiamo sempre più tardi da casa, insomma viviamo in un’epoca in cui si passa direttamente dall’infanzia all’età adulta, non c’è più l’adolescenza. Molte persone di 30 anni sono ancora all’infanzia. Quindi io trovo cruciale discutere di come educhiamo i bambini. Ecco perché nello spettacolo c’è una parte abbastanza consistente che parla da una parte dell’educazione pre scolastica, dall’altra dell’educazione scolastica.
Quando dici ‘oggi’ a che ‘oggi’ ti riferisci?
Quando dico oggi intendo la civiltà informatica, cioè la civiltà che è uscita dalla rivoluzione industriale e si sta ripiegando su se stessa e non è più capace di fare molte cose, viviamo di cose già fatte, mentre quello che facciamo serve tutto alle relazioni da cui l’informatica, la tecnologia informatica. Tant’è che la diffusione dei mezzi sempre più facili da usare come gli smart phone, spinge la gente a illudersi che viviamo in una società in cui è facile dare risposte semplici a problemi complessi ecco perché trionfano gli slogan, ecco perché un politico basta che dica due cose e la gente pensa di aver capito quale sarà la sua politica. La gente non riesce più a seguire i discorsi, siamo al limite dei 140 caratteri, siamo al rischio di una semplicità d’uso del mondo ma il mondo è complesso. Dovremmo essere preparati a questo ma non lo siamo.
Questo ha un legame con il momento dello spettacolo in cui dici “siamo tutti credenti”?
Sì siamo tutti credenti, perché tutti siamo aggrappati ad un mondo metafisico. Ne racconto della realtà noi non siamo capaci nemmeno di avere la coscienza che quello che stiamo vivendo è un racconto, questo chiaramente diventa ideologia, diventa metafisica. Ecco perché è molto facile che una persona dica: “Il mercato può aggiustare le cose”, mentre non si rende conto che il mercato è la somma dei comportamenti degli umani. Ecco perché molta gente vuole cambiare sé stessa e non si accorge che non è cambiando il seno o il naso che tu cambi. Noi non abbiamo bisogno di cambiare, ciascuno di noi è un bell’essere, non ce ne rendiamo conto (perché spesso non sappiamo nemmeno bene chi siamo) mentre non vogliamo cambiare di una briciola i nostri comportamenti. Noi non dovremmo cambiare noi stessi, bensì cambiare i nostri comportamenti, questo però non lo vogliamo fare quindi crediamo che un chirurgo estetico, uno psicologo o un istruttore possano farci cambiare. Questo non può avvenire, sono i comportamenti che devono essere cambiati.
Credi che questa direzione sia stata presa anche perché è cambiata la nostra relazione con il sacro, con quello che era un tempo un punto di riferimento nel bene e nel male, ossia con la religione. Te lo chiedo visto che nello spettacolo entrano più volte riferimenti al nostro rapporto con la religione, appunto.
Sì, non è cambiato nella sostanza, è cambiato nella forma perché chiaramente il precedente atteggiamento era di assoluta sudditanza soprattutto nei confronti dell’apparato ecclesiastico. Per cui la gente si fidava ciecamente, tanto che c’era un’espressione: si diceva “timor di Dio”, cioè la divinità era qualcuno di cui avere paura. C’era l’inferno, anche se oggi molti cristiani dicono: “non è vero che noi crediamo che ci sia l’inferno”. Mentre fino a 40 anni fa nessuno metteva in discussione l’esistenza del paradiso e dell’inferno. Diciamo che c’era una sorta di favola alla quale si preferiva credere e adesso c’è il tentativo di razionalizzare, un po’ come nei film della Marvel quando adesso il super eroe deve fare una battuta ironica sul fatto che ha un costume perché non sembri che lui sia un idiota con il costume. Io devo dire che preferivo i film della Marvel negli anni ’40-’50 quando l’eroe ci credeva, aveva questo costume ma non era un costume, lui era così, almeno quella era pura finzione, puro racconto. Invece l’atteggiamento di razionalizzare ci vuol far credere che noi sì siamo credenti, crediamo in Dio ma con coscienza di causa. Questo intanto ha allontanato molta gente dalla religione come la intendiamo classicamente senza un processo di emancipazione da essa. Questo vuoto spirituale però ovviamente deve essere riempito. Non si spiegherebbero altrimenti i milioni di persone in lacrime alla morte di Steve Jobs, senza un’idea metafisica, ad esempio, della tecnologia informatica.
I toni che usi per raccontare questa tua visione delle cose, sono quelli della comicità, che scegli denunciando il fatto che oggi sembra si possa parlare di cose serie quasi solo attraverso toni drammatici, al di fuori della satira.
No, non è che denuncio questo ma io sto dalla parte di Eduardo De Filippo quando diceva: “L’unico modo oggi di rappresentare il dramma è la commedia”. Io credo che l’arte faccia bene ad abbracciare anche la retorica, è una delle forme dell’arte che si può usare, però il drammatico che si prende sul serio diventa molto più comico del comico. Ecco perché io prediligo Hitchcock, ossia chi vicino al momento retorico, della serietà o della paura riesce ad avere l’ironia di vedere questa cosa da fuori. Questo vale per l’arte e per la vita. Per esempio sappiamo bene che nessuno può offenderti se non ti offendi tu, il motivo per cui ci si offende continuamente è che siamo prigionieri di un loop. Siamo prigionieri di un loop tra due immagini di noi stessi, una ideale, una depressiva e non riusciamo a vederci da fuori. E io credo che anche l’arte debba imparare a fare questo perché se no si cade nella tronfia retorica che però non trasmette più. Siccome l’arte è fatta per comunicare, per trasmettere, credo che quando l’arte non comunica fallisca il suo scopo.
E l’uso del dialetto?
L’uso del dialetto in questo spettacolo non c’è molto. Ad esempio nello spettacolo che sto portando in giro assieme a questo, che è una raccolta di pezzi degli spettacoli degli ultimi 10 anni, ho brani interamente in dialetto, presentati sulla forma del modo che aveva Dario Fo di spiegare il grammelot, per cui io uso la stessa tecnica, spiego prima i caratteri del dialetto, anche questa spiegazione diventa un brano comico in cui la gente si diverte ma afferra le regole e la grammatica di questo dialetto incomprensibile che è il Pavano dell’interno. Dopo di che faccio questi 7-8 minuti in dialetto e la gente capisce quasi tutto. Non credo che il dialetto sia un problema, può anzi essere un valore. Il teatro è l’arte di rendere comprensibile ciò che è il tuo racconto, perché lo rappresenti, non è scritto, è lì e tu lo devi rendere comprensibile. Se lo sai rendere comprensibile puoi portare il dialetto anche all’estero, come l’italiano. Se non lo rendi comprensibile, il tuo è solo teatro di parola e solo chi ha capito quello che stai dicendo, chi ha un codice condiviso capisce, gli altri no.
Un altro elemento che emerge dallo spettacolo è l’impossibilità che ci dà la nostra società di sbagliare.
Sì, e non è tanto l’impossibilità la cosa rilevante quanto la società ti spinge alla paura di sbagliare. Ecco che allora nelle valvole di sfogo dove si può sbagliare l’errore è enorme. Lo si legge per esempio nei social network, in cui persone magari anche equilibrate che sanno formulare un pensiero compiuto, si lasciano andare a infantilismi. Queste sono le valvole di sfogo, è come quello che si ubriaca il sabato sera dopo aver lavorato tutta la settimana e trova questa via dopo l’oppressione dal lavoro. Grande responsabile nell’instillare la paura dell’errore ovviamente uccide la tua creatività. Infatti una delle caratteristiche delle persone creative è il coraggio dell’errore, il coraggio di sbagliare, capire che l’errore fa parte della vita. Se uno è davvero creativo non lo considera nemmeno un errore, tante volte sono gli errori che portano a cose straordinarie, innovative. Prova a pensare agli accordi del Jazz, o di certi blues, precedentemente sarebbero stati considerati errori. Cos’è l’errore? In realtà è qualcosa che sta nella nostra testa, è un racconto. Se io scrivo uomo con l’ “h” la maestra mi corregge, mi dice che si scrive senza ma non è vero, adesso si scrive così, 200 anni fa si scriveva con l’ “h” e magari fra 300 anni si scriverà diversamente. Quindi anche la lingua come il nostro modo di ragionare è un animale in continuo cambiamento. L’errore è solo un altro punto di vista della realtà. Se pensiamo a questi versi che non mi sono più usciti dalla mente:
“E sogno un arte eterea
che forse in cielo ha norma
franca dai rudi vincoli
del metro e della forma”
Arrigo Boito
Ora io mi chiedevo: “un poeta che sogna una poesia che non sia schiava della metrica, che non sia schiava della rima, però è costretto a scriverlo in metrica e in rima perché diversamente la società della sua epoca avrebbe detto che è un cattivo poeta”. Se lui avesse scritto “m’illumino d’immenso” la società del suo tempo avrebbe scritto che lui non è adatto a fare il poeta.
Forse la parola ‘errore’ nel senso di sbagliare ha in sé il senso di ‘errare’ nel senso di vagare.
Di andare, di vagare, sì. “Errare humanum est” forse anche nel senso che è umana la curiosità di andare a sondare altri campi. Infatti l’errore nasce dalla deviazione dalla strada principale. Noi deviamo ma è solo così che possiamo creare nuove strade. E’ un tema eterno. Mi ha sempre colpito un fatto degli accordatori di fisarmoniche. Una volta sono andato a visitare una fabbrica di fisarmoniche che ora è diventata molto artigianale, in Piemonte. Ci spiegavano lì che gli accordatori di fisarmonica non dicono “accordo la fisarmonica” ma “scordo la fisarmonica” perché la devono scordare e quando non c’erano gli accordatori elettronici e non si facevano i pezzi a macchina ma si facevano a mano, quindi l’accordatore era l’uomo, ogni accordatore aveva il suo modo di sbagliare, di scordare la fisarmonica, e da quello capivi chi l’aveva accordata. Questo mi ha fatto capire una cosa importante, la mancanza di errori è mancanza di vita. Il suono perfetto che fa il computer quando simula gli strumenti musicali, ha un algoritmo che inserisce degli errori, perché non c’è altro modo di simulare la realtà che con l’errore. Il suono preciso del computer diventa quasi fastidioso ai nostri orecchi perché non lo consideriamo reale, ed è vero che la realtà è errore, non può esserci realtà senza errore. L’idea che tu debba mirare ad una perfezione, è un’dea che dovrebbe essere superata dal tempo, invece è ancora presente.
A proposito di presente, nel tuo spettacolo citi la politica da Colin Powell, Segretario di stato degli Usa al tempo di George W.Bush, a José Mujica, attuale presidente dell’Uruguay.
Sì io ho preso due discorsi di questi due rappresentanti della politica senza farli perché nello spettacolo non dico dei testi tratti da questi discorsi, ma li ho presi come spunto. Mi è interessato molto il lato “sincero”, tra virgolette appunto, del presidente dell’Uruguay il quale però al contempo deve nascondere al mondo i problemi dell’Uruguay, quindi si capisce che nella politica si può avere un atteggiamento genuino ma la sincerità vera e propria è molto difficile da raggiungere. Però mi era interessato molto un discorso ad un simposio che aveva fatto sull’ecologia, quando aveva detto: “se gli Hindu avessero lo stesso numero di auto per famiglia che hanno i tedeschi davvero pensate che noi potremmo parlare di sviluppo sostenibile, avremmo un mondo inquinatissimo”. Quindi capiamo se noi stiamo davvero governando questa globalizzazione o se ci stiamo facendo governare. Questa cosa mi aveva molto interessato perché noi di solito siamo molto ipocriti, soprattutto quando parliamo di queste cose come lo sviluppo sostenibile, il che significa che noi dobbiamo avere l’opportunità di continuare a svilupparci esageratamente, onestamente come stiamo facendo, lasciando poveri altri paesi, lasciando loro le briciole e dando loro l’illusione di far parte di un mercato. Questo mi aveva interessato. Poi mi aveva interessato anche il discorso di Colin Powell e io parto sempre dal punto di vista del Velo di Maya, perché lui fa un discorso in cui dice che ci sono le armi chimiche, chi stava dalla parte di Bush all’epoca faceva certi discorsi sulle armi chimiche. Allora tu ti chiedi “ma queste bugie sono riusciti a raccontarle alle gente?” io credo che non sia così, io credo che la gente sapesse che erano bugie ma voleva crederci. Ed ecco che torna un atteggiamento religioso.
Quindi molti sono i veli che vogliamo trattenere, cosa che un bambino ancora non fa, non ha ancora tutti quegli imprinting e per questo ha l’impulso di spingersi all’avventura, a quella vera, non come dici tu nello spettacolo “alla scarica di adrenalina che può dare il lanciarsi con il bunging jumping, per poi poter ritornare con rinnovato vigore il lunedì al lavoro, all’ufficio del catasto”.
Fin da piccoli la società ci abitua all’idea che noi dobbiamo conformarci, essere devianti ci fa sentire inadeguati alla società. Poi c’è anche il culto della deviazione per cui è una cosa complessa, magari c’è il bambino che sta deviando, si vede come Franti, si vede accusato dagli altri e questo gli dà piacere perché si sente speciale in questo modo, c’è anche questo lato ma è molto marginale. In verità al bambino viene appunto insegnata la normalità che è una cosa orrenda perché la normalità in natura non esiste. Non esiste in natura l’incasellamento che noi proponiamo, le giornate per esempio non sono mai uguali, una è lunga, una corta, non sono mai uguali la luce non è ma la stessa, non c’è un giorno uguale all’altro, però noi abbiamo bisogno di pensare che ci sono questo tot di ore durante la giornata, quindi dobbiamo avere dei punti di ancoraggio. Questo al bambino viene insegnato da subito, quindi quando nasce è chiaro che è all’interno di una famiglia che è già un’organizzazione che gli ha creato un ruolo che lui o lei non decide. Quindi gli viene chiesto questo, lui o lei deve compiacere i genitori, c’è questo attaccamento che lo spinge ad avere bisogno del loro affetto e se ha bisogno del loro affetto e loro gli fanno capire che comportandosi in un certo modo lo avrà, lui si conforma a questo. Quindi il bambino ha pochissimo spazio di libertà. Io però per esempio penso a com’era difficile per quelli della mia generazione, a com’era diverso alla fine degli anni ’60 quando tu dicevi alla mamma, che uscivi e ti vedevi con gli altri bambini, e avevi 8 anni e guardo l’oggi, vedo che non è più possibile questo, non c’è un bambino di 8 anni che può vivere una vita non blindata. Quindi anche i bambini quando giocano fra loro lo fanno sempre in presenza di un adulto, c’è un accompagnamento continuo, senza autonomia, è chiaro che ci si abitua, anche il cane si abitua all’idea che deve seguire il tuo passo, col tempo questo diventa naturale, non ha più la percezione che vorrebbe fare altro. Il cane vuole assecondarti perché sa che tu gli dai il cibo. Il bambino entra subito in questa dinamica qui. Per cui lo spazio di espressione diventa veramente ristretto e la genialità viene fortemente limitata. C’è un mio amico regista che mi ha fatto vedere una foto e mi ha detto: “Guarda che idea di architettura ha mio figlio” e mi fa vedere che questo bambino ha fatto una casa con un tetto poi delle colonne e in cima gli ha messo un cavallo. Il bambino come dicevo prima non si chiede se sia sbagliato mettere un cavallo in cima a quella costruzione perché per lui non è un errore, per lui è una possibilità.
Per concludere, uscendo dal teatro uno spettatore, dopo aver visto lo spettacolo ha detto “Bello, bellissimo, il problema è che ti fa ridere ma ha tristemente ragione in quello che dice”. Quindi il rappresentare l’oggi in teatro che valore può avere dal punto di vista? Credi che il teatro possa avere la forza di spostare il punto di vista?
Io sono un po’ al di fuori di questa logica, io non mi sento investito del fuoco sacro, né mi sento che io debba essere un educatore del pubblico, perché questo presuppone che io ne sappia di più di loro. Io ho perfettamente coscienza della mia marginalità quindi quello che io presento è un racconto ed è un racconto del mio punto di vista sulla vita, di questo Aleph che ognuno di noi ha. locale, che però vede tutto il mondo, ed è il mio racconto, il modo di far divertire. Se questo contemporaneamente fa ragionare la gente, gli fa pensare delle cose, li mette in crisi, li fa arrabbiare, a me fa anche piacere perché significa che l’arte è una cosa viva e bisogna che lo sia però io credo di non avere uno scopo in questo, io faccio l’unica cosa che so fare che è raccontare delle storie alla gente.