In scena Natalino Balasso e Michele Di Mauro al LAC di Lugano
di Anna Passatore (Fermata Spettacolo – 18/02/2025)
La voce di Eduardo si alza sul chiacchiericcio della sala, per presentarci come creatura sfortunata un’opera accolta tiepidamente da pubblico e critica, all’epoca del debutto, nel 1948, perché fuori dal canone realista dei suoi primi testi. È un frammento delle parole registrate per l’edizione televisiva degli anni Cinquanta. L’autore aveva inaugurato infatti un nuovo ciclo di scritti dalla vena surreale e simbolista ed era in cerca di altri stimoli. Il testo fu accusato di risentire apertamente dei debiti pirandelliani. Debiti per cui non finiremo mai di ringraziare Eduardo e lo stesso Pirandello, che ancora una volta ci offre di rimbalzo una chiave tutt’altro che obsoleta di interpretazione del mondo contemporaneo. È quanto più attuale infatti il tema del conflitto fra illusione e realtà, fra maschera sociale e individuo, menzogna e desiderio non risolto. D’altra parte, in mezzo si situa l’allestimento di Giorgio Strehler degli anni Ottanta, che avrebbe fatto dell’opera un classico.
Gabriele Russo, che ha lavorato con il Maestro napoletano in gioventù, rende i suoi contenuti manifesti, attraverso il dispositivo scenico e il suo variare, con la vestizione degli attori in proscenio, i cambi a vista, i proiettori usati dentro e fuori dalla quarta parete, rivolti alla fine sul pubblico. Il fondale mostra in trasparenza ciò che sta dietro questa realtà simulata, come magico doppio-fondo: ora suggerisce la banchina di un porto, ora la dimensione dell’altrove o quella del vuoto, nella semplice nudità del palcoscenico.
Tutto ciò in un gioco che fa appello alla magia del teatro e che la travalica. È pure il gioco delle false promesse di imbonitori e persuasori occulti: venditori di fumo e populisti d’ogni tempo, bisognosi di un consenso pagato o simulato. Sulle macerie dell’Italia del secondo dopoguerra, è evidente nel testo la critica alla propaganda fascista, ma anche al nuovo sogno d’arricchimento della finanza (su cui però non si insiste).
È il gioco dell’ipocrisia borghese, che occulta la realtà, ma di cui è testimone il coro sardonico della comune maldicenza, con le voci di Maria Laila Fernandez e Anna Rita Vitolo, in apertura del primo atto.
È il gioco dell’autoinganno che imprigiona l’individuo nelle sue eterne illusioni, con la connivenza dei vari attori sociali: qui la famiglia tradizionale, gli avventori e i camerieri dell’Albergo Métropole, le forze dell’ordine.
Solo la morte, che colpisce chi colpa non ha, sembra essere reale, trasformando ancora una volta in illusione ciò che c’è o c’è stato: la povera Amelia di Veronica D’Elia (schiva nel suo monologo) viene strappata alla vita nel fiore degli anni, come un minuscolo garofano finito per caso in pasto ad un equino, perché tutto è metafora.
È il gioco di chi si compiace del proprio dolore, senza nulla cambiare: la madre del Di Spelta (la già citata Vitolo) si presenterà nel terzo atto nella rigida fissità di una maschera tragica.
È il gioco del parassita nei confronti della vittima di cui peraltro è l’alter-ego. Non è un caso se Eduardo abbia voluto interpretare entrambi i ruoli, nelle successive riprese, quasi a dirci che sono aspetti complementari della nostra anima.
Michele Di Mauro spoglia Otto Marvuglia dei nobili accenti eduardiani, per indossare quelli di un moderno bagatto che anima lo spazio con gesti, cinguettii e campanelli: un uccellatore circondato dal ciarpame teatrale. Così l’affabulazione del Mago si spegne in claim pseudo-filosofici, adatti al nostro consumo quotidiano. Questi resta però consapevole della sua impotenza di fronte alla tragicità dell’esistere e battibecca con Zaira, moglie dal temperamento deciso (Sabrina Scuccimarra), per il saldo dell’affitto al padrone di casa.
In definitiva, riesce a irretire il mal capitato Calogero Di Spelta in una comunicazione a doppio legame, da cui solo un atto di coraggio potrebbe liberarlo. (Ma lui conosce l’ignavia dei suoi polli). In modo inaspettato, è capace di compassione e accenti di disperazione: altri illusionisti forse manovrano, più in alto, il filo delle vicende umane, fra adulteri e mali incurabili. Lui però non vuole smettere di credere: là davanti, pur fra le quattro mura, c’è il mare e, in virtù di un’immaginazione prodigiosa, può convincere il prossimo della sua realtà, come ogni bravo artista.
Natalino Balasso fa di Calogero un personaggio murato nel carcere dell’anima, pronto a salire sul patibolo della sua nevrosi: l’adulterio di Marta (Alice Spisa) e Mariano D’Albino (Gennaro Di Biase) si compie davanti ai suoi occhi, come nello scatto di un’indelebile scena primaria. Dopo avere contribuito per anni, e con orgoglio malriposto, alla sparizione della moglie, trascorre dalla passività ad una sorta di felice psicosi, continuando a stringere al petto la scatola della propria illusione: la prova della fedeltà di lei. Eppure il trucco è svelato. Ormai consumato, nell’ultimo atto si toglie i sassolini dalla scarpa e con miti accenti, inchioda finalmente la famiglia alle sue responsabilità morali.
Con e oltre Eduardo, Gabriele Russo libera il testo dei residui realistici, creando uno spazio-tempo straniante: rende il pubblico compartecipe di un esperimento esistenziale, che insinua, questa volta in noi, la domanda se ci sia qualcuno al di sopra del nostro unico e misero gioco.
Funzionali sono le scene di Roberto Crea, di cui s’è detto, anche per la trovata del carretto spinto dal vecchio ambulante, che si fa magicamente cucina nel secondo atto. Di una liquidità cerulea le luci di Pasquale Mari, avvolte nei suoni siderali di Antonio Della Ragione.