da William Shakespeare
con:
NATALINO BALASSO – Petruccio
STEFANIA FELICIOLI – Caterina
e con: (in ordine alfabetico)
Linda Bobbo Gremio , Ursula Joss Falso Vincenzo e pianoforte, Silvia Masotti Tranio, Marta Meneghetti Bianca, Lucia Schierano Grumio , Carla Stella Battista , Antonella Zaggia Ortensio , Camilla Zorzi Lucenzio

regia: Paolo Valerio e Piermario Vescovo
costumi: Chiara Defant
musiche: Antonio Di Pofi
responsabile tecnico: Roberto Rossetto
luci: Enrico Berardi
assistente alla regia: Paola Degiuli
sarta: Marta Malatesta


Nell’allestimento firmato da Paolo Valerio e Piermario Vescovo, esperto di Letteratura Teatrale tra il cinquecento e il settecento e docente di Letteratura Teatrale Italiana all’Università di Venezia, per l’Estate Teatrale Veronese, a ricoprire il ruolo di Petruccio, protagonista maschile della commedia, sarà Natalino Balasso attore veneto noto al pubblico per le molteplici interpretazioni teatrali, cinematografiche e televisive.
Al suo fianco, la bisbetica Caterina sarà interpretata da Stefania Felicioli, attrice veneziana di grande carattere, apprezzata da pubblico e critica, che ha lavorato con i più grandi registi italiani, tra i quali De Bosio, Castri e la Comencini.
Oltre a loro un cast tutto formato da attrici del Teatro Stabile di Verona, con la partecipazione anche di attrici provenienti dall’Accademia del Teatro in lingua veneta, ideata dall’Ass.ne Amici del Castrum.

LA LINGUA
Non ci dovrebbero essere problemi di sorta per la legittimità di tradurre in un impasto dialettale o linguistico veneto, un testo shakespeariano. E’ un’operazione, del resto, autenticata per altre tradizioni teatrali italiane da esempi di prima grandezza, anche nello scorcio del secolo appena chiuso.
Le ragioni di una scelta di questo tipo si addice, di solito, alla necessità di dare materialità allo stile alto o di far di nuovo percepire la mescolanza di stili e livelli, spesso cancellata dall’abitudine e dalla routine scenica. Probabilmente infatti la prima esigenza di ogni traduttore shakespeariano è di tentare di dare uno spessore – che sembra impossibile nell’italiano – a una lingua che ha insieme la concretezza del parlato e l’astrattezza della combinazione concettosa.
In questo senso un’interessante suggestione ci arriva da molto lontano: quasi cinque secoli prima della poesia in veneto del Novecento, la lingua con cui Ruzante metteva in scena i contadini diventa infatti – nella Lettera all’Alvarotto – la lingua del sogno, contrapposta all’italiano della veglia, quella, tra l’altro, in cui parlano i morti.
Una lingua sicuramente adatta ai fantasmi e alle ombre del teatro, alla vita come recita.

LE DONNE
Ma chi sono costoro, che conducono il gioco?
Domanda, come tutte le domande che si presentano ingenue, profonda e spiazzante.
E’ fin banale ricordare che le compagnie del teatro elisabettiano erano composte interamente da uomini e non è raro anche oggi imbattersi – per archeologia o bizzarria – in allestimenti tutti al maschile. Il capovolgimento che qui si presenta – una mossa forse più ardita – non ha nulla di concettoso né è dettato da una volontà di stranezza fine a se stessa. Una commedia quasi interamente di personaggi maschili e assunta come prototipo di trama misogina per antonomasia nella tradizione, è un terreno naturale per un capovolgimento o, più semplicemente, per un rovesciamento di prospettiva.
E’ la storia di un sogno che si ribalta – e che assume quindi, a ritroso, un’aura di autocompensazione impossibile – chiama quello che un tempo si definiva il “mondo alla rovescia”. Ecco allora un drappello di donne che mettono in scena il sogno e impersonano, in abiti prevalentemente maschili, le parti in commedia che il sogno contiene.
Proviamo anche noi così a mescolare un po’ – se ci riesce – le quinte del sogno lunare e i tragitti delle strade tra Padova e Verona.

TRAMA
Un signore, circondato da cani e cacciatori, appare non appena l’ubriaco Christopher Sly entra e si appisola sulla scena. Quando costui si risveglia – in un letto comodo e profumato – un gruppo di attori recita davanti a lui, e a noi, una commedia, la cui trama principale narra la vicenda della bisbetica Caterina, domata, attraverso privazioni e angherie, dal “provinciale” Petruccio.
Caterina, figlia di Battista Minola, ha una sorella minore, di nome Bianca, che, al contrario, raccoglie intorno a sé un nutrito gruppo di pretendenti e che il padre decide di tenere chiusa in casa fino al giorno in cui non sarà combinato l’apparentemente impossibile matrimonio della figlia maggiore. Ma subito, accanto a Ortensio e Gremio, “rivali felici in amore”, dovrà apparire il terzo incomodo Lucenzio – giovane studente pisano – che, innamoratosi di lei a prima vista, sceglie la via più complicata per corteggiarla: prima scambiandosi gli abiti col servo Tranio, quindi travestendosi da precettore. Parallelamente Ortensio si nasconde sotto i panni di un maestro di musica…
La trama della Bisbetica – solitamente ridotta alla sola storia principale – procede in realtà su un doppio binario: Caterina diventa sempre più desiderabile mentre il carosello degli amanti smette, in sostanza, di girare intorno a Bianca. Le plurime astuzie del servo Tranio, travestito da padrone, un falso padre del giovane Lucenzio e quindi l’arrivo inaspettato del padre vero spostano, di grado in grado, il meccanismo di una complessa macchina scenica che racconta, in realtà, una trama delle metamorfosi del desiderio e della confusione dei ruoli e delle identità.

NOTE DI REGIA
“Nel sogno m’imparolo”
Cesare Ruffato
Tradurre o adattare La bisbetica domata in veneto non ha alcuna velleità o rivendicazione: è, semplicemente, un’operazione teatrale. C’è, semmai, da stupirsi che una tradizione letteraria e spettacolare tanto ricca – che attraversa i secoli, da Ruzante a Goldoni e oltre – e il più grande uomo di teatro di tutti i tempi, che ha ambientato su suggestioni novellistiche o drammatiche tante sue trame tra Venezia, Verona e Padova, non sisiano, naturalmente, incontrati, soprattutto alla luce delle ricreazioni più alte degli anni a noi più prossimi, dalla versione in napoletano secentesco della Tempesta con cui Eduardo ha chiuso la sua carriera, alla straordinaria invenzione del lombardo barocco degli scarozzanti di Testori, per limitarci a due episodi di particolare evidenza. Su un terreno più basso – quello che ci appartiene – l’origine della scommessa è in ogni caso il tentativo di restituire almeno in parte un linguaggio che possiede insieme la concretezza del parlato e l’astrattezza della combinazione concettosa. Scendere verso il dialetto aiuta certo immensamente, perché offre appigli di verità – di cose, espressioni, locuzioni – a un universo discorsivo che l’italiano, per sua costituzione, riesce difficilmente ad afferrare.
Nella complicata e per più versi sfuggente cronologia delle opere shakespeariane una Bisbetica domata – che si svolge ad Atene – sembra collocarsi negli anni giovanili del drammaturgo, intorno al 1594: data in cui va in stampa una meno nota versione della commedia, tratta da un copione o dalla memoria di qualche attore. Mentre nella più celebre versione “padovana”, la beffa giocata a Christopher Sly – il calderaio ubriaco davanti a cui gli attori recitano la storia di Caterina e Petruccio, di Bianca e dei suoi pretendenti – è solo una sorta di prologo, che non trova poi alcuna prosecuzione, la versione “ateniese” costruisce, viceversa, una vera e propria cornice intorno alla commedia recitata dai comici, con alcune brevi parentesi, o “cerniere”, in cui periodicamente riappare lo spettatore ubriaco e, soprattutto, con una conclusione speculare all’inizio, a proposito dell’incertezza che i sogni proiettano sulla vita. Se questa cornice offre al quadro della Bisbetica un tempo esatto – dal far della sera al mattino seguente –, essa suggerisce anche un elemento di più singolare e libero raccordo del ruolo dell’ubriaco sognatore con la “commedia in commedia”. Come accade a tutti i sognatori, il ruolo di chi è spettatore nel “teatro del sonno” e di chi in sogno agisce è sottile e intercambiabile. Non siamo sicuramente i primi – perché tutto è stato già fatto e tentato – a pensare di far entrare Sly nel sogno commedia come attore, e anzi nel ruolo del personaggio-cardine di Petruccio. Le trame fitte di complicati scambi d’abito e di persona – servi che si fanno padroni, finti padri, finti precettori e quant’altro – del versante della commedia di solito ampiamente sforbiciato negli allestimenti moderni sono, di conseguenza, qui mantenute, nel gioco di una vertigine teatrale o di un’allucinazione comica.
Anche la commedia “dalla parte di Bianca” potrebbe, dunque, benissimo essere un sogno, e cioè procedere con la leggerezza, la velocità, la mutabilità con cui nei sogni tutto si sovrappone e si trasforma. Shakespeare ha senz’altro letto le prime commedie di Ludovico Ariosto – come I suppositi, a cui la Bisbetica si ispira per la sua trama complicatissima e i suoi scambi dabito e identità – mentre egli sicuramente non poteva conoscere autori come Ruzante, evidentemente inaccessibili. Trame e invenzioni circolavano naturalmente, di rifacimento in rifacimento, nell’Europa di allora, per le vie del teatro recitato dagli attori, oltreché di quello messo su carta dai letterati. L’ubriaco Sly, per esempio, può ricordare i personaggi di Ruzante che vedono dormendo la commedia, e la raccontano senza capire se essa sia sogno o vita, come i contadini che ricordano al risveglio le trame confuse e il sorriso delle pute spettatrici che guardano dalla parte alta delle gradinate, tanto da credere di essere morti e di tornare dal paradiso. E un abbaiare di cani – proprio come succede qui – è il rumore di fondo, in una battuta di caccia, su cui racconta di appisolarsi Ruzante proprio nella “notte dell’epifania” nella cosidetta Lettera all’Alvarotto: un sogno di commedia che alterna l’italiano della veglia al dialetto del sogno. Angelo Beolco è – del resto – il primo grande scrittore veneto, quattro secoli prima di Andrea Zanzotto e di altri poeti del nostro tempo, a concepire il “dialetto” – la lingua grossa o la lingua materna – non solo come un prevedibile strumento di realismo o di imitazione della vita quotidiana, ma come lingua del sogno e del profondo, sicuramente adatta ai fantasmi e alle ombre del teatro, alla vita come recita. È fin banale ricordare – infine e per il più vistoso capovolgimento di questo spettacolo – che le compagnie del teatro elisabettiano erano composte solo da attori di sesso maschile. La Bisbetica è, nella sua realtà concreta, una commedia in cui quasi tutti i personaggi sono uomini e che viene assunta, spesso con imbarazzo, quale prototipo di trama misogina per antonomasia nella tradizione teatrale. Quello che qui si tenta ci è, allora, sembrato un esito quasi naturale se si parte dall’unione di Sly e Petruccio, del sognatore sconfitto e del protagonista vincitore, soprattutto se il protagonista – come qui ancora accade – viene sottratto al canone, peraltro del tutto convenzionale, del primo attore prestante.
Quale migliore occasione per un rovesciamento di prospettiva, rispetto alla consueta morale della sottomissione femminile, nel chiamare un drappello di donne, attrici o scarozzanti, a mettere in scena la celebre commedia e il sogno che la contiene?
Paolo Valerio
Piermario Vescovo