Apre la Stagione del Teatro Bellini di Napoli il grande omaggio al Teatro di Eduardo

di Luigi Paolillo (Fermata Spettacolo – 24 ottobre 2024)

Il pubblico vero deve fingersi mare dice, molto avventurosamente e con un pizzico d’apparente poesia temeraria, proprio all’inizio, la didascalia del copione de La grande magia, e le didascalie, si sa, come potrebbe insegnarci Gennaro Capocomico di Uomo e galantuomo si leggono, si leggono, bisogna tenerle in conto, altrimenti si corre il rischio di prender fischi per fiaschi e clamorose cantonate. E così vengo qui, al Teatro Bellini, quasi settantacinque anni sono passati a Napoli, dove fu rappresentata questa figlia sfortunata per la prima volta al Mercadante, da Eduardo e Titina: son venuto per sentirmi mare, non so se placido o in tempesta, di certo di mutevole umore, a seconda del vento e delle correnti.

E certo metterlo in scena, oggi, di fronte a un mare così cangiato da allora, il giuoco sottile inventato tanti anni fa, è impresa non da poco, anomalo e particolare com’è, frutto, probabilmente, di molteplici ispirazioni, di profonde e diverse esigenze che Eduardo sentiva dentro di sé nel periodo della sua genesi, il 1948 dello scampato pericolo, la fine della guerra e del fascismo, nuove speranze, nuovi sogni, finendo in seguito per inserirlo tra le perle nere della Cantata dei giorni dispari, le giornate uggiose, strane, controverse, contrariate e contrarianti. Ma, anche, più stimolanti.

Perché questa vicenda, semplice nella sua essenziale nudità, complessa, invece, nel lavorìo sotterraneo e latente che si svolge lontano dai nostri sguardi, nelle menti dei personaggi, soprattutto del protagonista Calogero Di Spelta, porta in sé le stimmate d’una irrisolta ambiguità, che certo molto deve a Pirandello, ma che rimane tuttavia a buon diritto, in tutto e per tutto, eduardiana nell’abbinarsi tragico e sorprendente della popolanità delle situazioni con l’aristocratico sguardo, dell’inusitata ricercatezza con la leggerezza della semplicità, coniugando, in modo mirabile per misura e grazia, la miseria e la nobiltà di Napoli e della sua più vera essenza, ben lontano da ogni luogo comune o scontato stereotipo. Fu di certo la presunta distanza dallo stereotipo della napoletanità la causa dei fischi e della clamorosa caduta della prima, sappiamo oggi, dopo la rivalutazione strehleriana di giusto quarant’anni fa, che se Eduardo tolse qualcosa, in questo lavoro, rispetto agli altri suoi, non fu di certo il sapore napoletano ma il provincialismo un po’ chiuso un po’ miope, per aprirsi ad un respiro più ampio e profondo.

Ho sempre avuto il vezzo di pensare La grande magia equivalente, nella drammaturgia eduardiana, ai Sei personaggi in quella pirandelliana, l’avrebbe a buon diritto potuta chiamare, se non stonasse troppo – appunto – con la rassicurante e fallace immagine eduardiana del mite incantatore della piccola borghesia napoletana, Due autori in cerca di personaggi, come il capolavoro dell’Uomo di Caos un persistente, tesissimo, appassionato omaggio al teatro, che accomuna modi così diversi, e tuttavia contemporanei, di metter sulla scena ansie e angosce, gioie e speranze degli uomini. Ti accorgi così che le citazioni pirandelliane, troppe e troppo smaccate per essere un caso fortuito, sparse un po’ dovunque nel testo, nelle situazioni, nelle atmosfere, e poi varie contingenze, dialoghi, situazioni, déjà-vu e déjà vécu nel corso della vicenda, che al teatro si riferiscono, son tracce evidenti, a cominciare dalla lingua, che ad altro ci indirizza e ci sollecita, a quell’innominato id che domina tuttavia invece personaggi e discorsi, crea un fittizio mondo sempre sull’orlo della più smaccata incredibilità.

Forse, come spesso succede, tutto questo era un po’ troppo avanti per i tempi, e quindi finisce per sperimentare qui, Eduardo, un registro che totalmente sembra allontanarlo dal solido realismo dei suoi precedenti lavori, ma è pur vero, a ben guardare, tuttavia, come l’Autore risulti, alla fin fine, ben più vicino al linguaggio e ai problemi dei suoi tempi di quanto non appaia. Fino a rappresentare, la vicenda di Calogero Di Spelta e di Otto Marvuglia, allora, in fondo, il punto d’arrivo di una poetica del realismo di quegli anni che quasi inevitabilmente sarebbe sfociato in una surrealtà se non magica certo obliqua e sorprendentemente ben più variegata nei suoi esiti: due anni dopo Vittorio De Sica, esponente di punta del neorealismo della ricostruzione, avrebbe firmato con Cesare Zavattini quel Miracolo a Milano che sembra proprio, sul piano cinematografico, l’analogo de La grande magia, che da un’ordinaria e realistica e prosaica situazione arriva, invece, dove non ti aspetti, ad esplorare terre esotiche che appartengono, di certo, più al sogno che alla realtà.

Costruisce, allora, Gabriele Russo, con la collaborazione dei pennelli di Roberto Crea, una scena sapiente che – ricordando Prospero – altro non è che rappresentazione fugace e finta – è, teatro, arte del finto – di una vita che invece risiede altrove, condensando l’immagine in diafano tessuto che ha consistenza e veridicità del sogno, la località balneare viene ricostruita come menzogna purissima che riporta alla sacrosanta verità dei giorni estivi, che passano pigri e lasciano in bocca il gusto un po’ amaro di cose perdute, come diceva quel poeta: non c’è alcuna ombra, in questo finto mondo, bagnato da un mare che s’agita e s’impenna ogni tanto per qualche battuta.

Perché, alla fine – ce lo saprà dire anni più tardi Campese Capocomico, diretto discendente del Gennaro di prima, nell’Arte della Commedia – vere strade e piazze appartengono al cinematografo, arte del falso, agli spettatori del teatro può, deve bastare la parola del poeta, scene e fondali sono menzogna dichiarata, perché a teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema menzogna, e dunque, tra parentesi, il pubblico deve ben fingersi mare, se il poeta lo vuole. E qui scene e fondali, della stessa sostanza del sogno, sono cangianti e mutevoli, di volta in volta adattandosi alle esigenze del giuoco: un velario sottile e traslucido chiude il fondo, aperto a destra e a sinistra da due porte, inevitabilmente delimitando un al di qua dove si svolgono le azioni e un al di là che è commento, preparazione, chiosa, presagio, una passerella praticabile scorre dietro, creando un effetto a metà tra  ombre cinesi e  camera obscura, a seconda della presenza o dell’inclinazione della luce, potendo variare, alla fine, tra impalpabile trasparenza e opacità assoluta.

Diventerà, allora, quel fondale, nella prima parte dell’Albergo Metropole, sottile velatura che, come in un quadro impressionistico, s’incaricherà di moltiplicare la luce solare rendendo più vivido il mondo, più netto il contorno di persone e oggetti, più fredda, tuttavia, la percezione di chi guarda: tutto appare immerso, grazie alle luci scandalosamente belle di Pasquale Mari, in un’atmosfera tra il cinerino e il cilestrino che, se da un lato ci riporta all’onnipresente pensiero del mare, dall’altra fa risaltare, quasi livide, cose ed espressioni, impregna corpi e anime, strania del tutto lo sguardo nostro, stimola la cognizione muovendosi al di là e ben oltre l’atteso, tentando mosse inopportune, situazioni incongrue, a terra foglie morte in piena estate, già timore d’autunno, gesti che s’incrociano al limite dell’insensatezza beffarda, in una dimensione che potrebbe sembrare onirica per il rimescolamento improvvido degli opposti ma che invece è intenzionalmente artificiosa, creata, cioè, ad arte, perché i nostri sguardi possano risvegliarsi, comprendere al di là dell’evidenza, al di là perfino dell’emozione epidermica.

Il dramma – della mente e del cuore insieme, dell’anima e del corpo – prende inaspettatamente, allora, le mosse da una combinazione tipica della pochade, un grande albergo, storie d’amanti, fughe d’amore, mariti ridicoli, maghi ruffiani, ma poi il tutto prende un’altra piega, inaspettata, ci si trasferisce tutti insieme – come per effetto, per l’appunto, di una gran magia, o di un vento forte che soffia e riempie l’universo, rimescolando foglie morte e credenze ataviche, le nostre paure, i nostri affanni, le nostre allegrie – in un mondo altro, diversa la storia, diversa la geografia, fino a che le due parti diventano irrimediabilmente troppo distanti, incommensurabilmente indecifrabili l’una all’altra, occupando territori di cui prima era impossibile anche solo sospettare l’esistenza.

Il fondale, quel velario che così pronto risponde alla vitalità della luce, si opacizza, allora, nella seconda parte, diventa usurata tappezzeria dell’antro del Mago, pronto tuttavia a tornare traslucido all’occorrenza, in tutto, evocando il mare dell’inizio, o in parte, come nella suggestiva scena della morte d’Amelia; diventerà del tutto cieco alla fine, nella terza parte, descrivendo la prigione della mente e del cuore che racchiude, come in una scatola, Calogero Di Spelta, la sua fallace speranza, la sua malposta fede, dentro cui invecchia, ammuffisce, muore. Sì, ha ragione, e lo dimostra, Gabriele Russo, questo è gran teatro. Perché il teatro è una Grande Magia.

E certo molto, nella comprensione del testo e delle situazioni, si deve agli attori e al loro vivere la commedia sulla scena, a partire dall’uso del linguaggio, cadenze dialettali di tutt’Italia, come nell’allestimento di Strehler dell’84, segnalando l’abbandono dei confini regionali. Naturalmente cura particolare va ai due protagonisti, che Eduardo pensò, probabilmente, proprio come rappresentanti di due modi diversissimi dei fare e di essere teatro ma che tra loro in qualche modo fossero complementari, perché nessuna modalità teatrale può bastare a se stessa.

Pensò bene, l’Autore, che i due attori potessero scambiarsi quel ruolo di sera in sera, di replica in replica, come nella grande tradizione classica che vuole interpreti e personaggi adattarsi al giuoco delle parti, Don Giovanni e Sganarello, Jago e Otello, Maria Stuarda ed Elisabetta. Pensò Eduardo ad un grande attore pirandelliano dell’epoca, come Ruggero Ruggeri, più che altro rimescolando le carte, per la parte di Otto Marvuglia, per sé riservando quella di Calogero Di Spelta. Poi le cose andarono come andarono, la collaborazione con Ruggeri non si realizzò, lui interpretò il mago le poche volte che la commedia andò in scena.

Qui al Bellini Otto Marvuglia ha gli occhi da falchetto di Michele di Mauro, la sua ricerca esita in un personaggio apparentemente tutto orientato ad una teatralità esteriore, un protagonismo che riempie la scena di grottesca velleità fallimentare d’istrione rassegnato e stanco, che tuttavia lascia intuire, dietro il trucco da guitto furbo, il pastrano e le collane di vetraccio colorato, un’umanità non del tutto spenta, la capacità, anche se asservita al tornaconto personale, di comprendere – in senso pieno – uomini e situazioni vibrando in sintonia con loro, lasciando che entrino in risonanza le loro angosce sulla sua maschera d’attore, sulla sua spiccata espressività, sul gesto che esprime, svela, interpreta: personaggio, dunque, che gioca la sua complessità sui toni accesi della teatralità da imbonitore, che costa, credo, anche molta fatica fisica all’attore, ma che sa all’occorrenza fermarsi, lasciando intravedere l’uomo sotto la maschera non sempre rassicurante del clown.

Se l’interpretazione del Mago Marvuglia è tutta giocata sul sovraccarico del gesto e della mimica, per contraltare quella di Natalino Balasso è tutta in levare, sottrae continuamente enfasi al gesto e all’espressione di Calogero Di Spelta, fin dall’inizio la sua gelosia appare senz’altro più dolorosa che incollerita, vive con amarezza la sua condizione di marito tradito, lasciando ben intuire come, probabilmente, ben la conosca e come si sia ormai quasi rassegnato, rivestendosi con un habitus depressivo che si manifesta con il suo starsene in disparte, le spalle curve, espressione più di infelicità vitale che di superbia od orgoglio, anche il distacco che manifesta rispetto alle illusioni, il pane è pane, il vino è vino, e l’acqua di mare è amara e salata, non appare frutto di freddo cinismo, ma di calda disillusione. Il che, dirò, rende senz’altro più comprensibile l’evoluzione del personaggio verso la follia della terza parte, in cui si prende finalmente tutto il palcoscenico da grande protagonista.

Accanto ai due protagonisti, uno stuolo di ottimi attori crea le migliori condizioni perché l’opera possa al meglio stare sulla scena: in particolare segnalerò Sabrina Scuccimarra nei bisbetici panni di Zaira, moglie, aiutante, confidente, pungolo costante di Marvuglia, di cui conosce segreti e miserie, riuscendo perfino ad amarlo lo stesso, e Veronica D’Elia che disegna un tenerissimo ritratto d’Amelia e dei suoi troppo presto sfioriti piccoli garofani rosa pallido; tranne loro, tutti gli altri attori – Gennaro Di Biase, Christian di Domenico, Maria Laila Fernandez, Alessio Piazza, Manuel Severino, Alice Spisa, Anna Rita Vitolo – interpretano due ruoli ciascuno, alcuni anche en travesti, non è forse anche questo testimonianza della suprema magia del teatro?