di Silvia Francia (LA STAMPA TORINO * 19 gennaio 2018)

Difficile, proprio, che le streghe di Macbeth parlino in lingua grassa della Padania più trash. Che la perfida, intelligente Lady si scordi Shakespeare – se non per sorellanza cattiva – e indossi i panni di una sciura bruttina, vogliosa di sesso, ma, soprattutto, di soldi e di dominio. Però succede. Succede che nei dialoghi qualunque di un quasi qualunque homo – poco – sapiens di oggi, risuoni, inconsapevole, la tragedia alta, dalle origine più nobili. Natalino Balasso compie questo piccolo miracolo teatrale e convince il pubblico delle Fonderie Limone, dove il su applaudissimo spettacolo, “Toni Sartana e le streghe di Bagdàd” è in cartellone sino a domenica, per la stagione dello Stabile di Torino. Sartana è alla sua seconda apparizione in scena, in questo ulteriore capitolo della trilogia “La cativìssima” che ha già in gestazione uno step ulteriore e conclusivo.
Dopo il primo episodio, che vedeva il nostro – nato, appunto, dalla fantasia di Balasso, che ne scrive le gesta, ne dirige le storie e ne interpreta le avventure – alle prese con un’improbabile ascesa politica, ora si parla di soldi.
“Money, money, money” come recita uno dei refrain musicali che ritmano lo spettacolo. “Money” che è la parola principale del vocabolario, molto inventivo, va detto, di questo antieroe dall’accento veneto e dall’evidente provenienza da una regione del nord (non importa neanche tanto quale) che idolatra i soldi e schifa qualunque diversità: geografica, culturale, esistenziale. Dai terroni agli arabi ai transessuali, come dice senza mezzi termini Sartana, che se ne frega del “politically correct”, storpia la grammatica e veste da cafone. Lui, Toni, è un cattivo senza vera cattiveria: mente, truffa, e persino uccide non per malevolenza, ma semplicemente per realizzare il suo sogno: fare tanti “sghei” con buona pace – o meno – di tutti. E poter soddisfare ogni sua voglia.
Ignorante, basico, istintuale nel senso più bieco (e più comico) del termine. Senza saperlo, è il figlio perfetto di una società che spande, attraverso i media più beceri, il suo messaggio di devoto consumismo, il vangelo del profitto senza limite, una visione etica in cui l’unico peccato è l’essere poveri e qualunque. Bisogna guadagnare tanto, dare la scalata al successo, avere casa di lusso, auto di lusso e status symbol come se piovesse, fare sesso con ragazze esclusive: peccato, se tocca pagarle o se, magari, si scopre che, sotto le gonne, sono maschietti. Detto così, sembra un insopportabile pistolotto moralista da reduci di un passato in cui fiorivano i credo e i valori. Ma il bello, invece, è che Balasso ne fa una specie di epopea fantastica, parodistica e surreale, con echi shakespeariani, sbruffante da western padano e bassezze da tinello losco di periferia.
Molto bravo lui, bravi tutti gli attori che lo affiancano: figurine che nel macchiettismo antirealistico trovano la loro misura migliore: su tutti, la Lea di Francesca Botti, comicamente sgradevole quanto può essere una moglie bruttina, linguacciuta e vessante. Tra l’altro, si ride molto: che non è poco, per quasi tre ore di spettacolo.