di Camilla Tagliabue (Il Fatto Quotidiano * 19 ottobre 2018)

Riuscito lo spettacolo anti-strehleriano di Binasco con un cast di ottimi attori guidati da Balasso

Scrive il primattore Natalino Balasso in una lettera al regista Valerio Binasco: “E’ tipico della commedia non avere (nel titolo) nomi propri. Mentre la tragedia li richiede – vedi Amleto -, la commedia si identifica non nel nome proprio, ma in una caratteristica del personaggio”.
Non vi è dubbio perciò che Il servitore di due padroni di Goldoni sia una commedia: con gli anni, tuttavia, il protagonista Truffaldino è stato sostituito da Arlecchino e il titolo si è conseguentemente modificato in Arlecchino servitore di due padroni, ormai “canonizzato” da 71 anni di allestimenti strehleriani. Da questo mostro sacro della scena italiana (sopravvissuto persino al regista e ai suoi interpreti e ancora in replica) prende oppportunamente e coraggiosamente le distanze Binasco, che firma un nuovo adattamento per lo Stabile di Torino: “Non è uno spettacolo ispirato alla Commedia dell’Arte, e non usiamo le maschere della tradizione”, ha spiegato. “L’antico teatro è ancora il teatro della festa e della favola”, esplicitate in una quasi commedia all’italiana con giostre, palloncini, scivoli e biciclette, oltre a intermezzi di pura clownerie, come le irresistibili scene del trasporto delle valigie e del pranzo dalle mille portate.
Dei tanti fili della trama se ne prediligono qui tre: il tema dell’identità e del doppio, dai nomi fittizi al travestimento; lo scarto tra verità e menzogna, noto e ignoto, vedo-non vedo, felicemente tradotto dalle scene di Guido Fiorato in un saliscendi di sipari e porte a vista; la questione femminile (vexata quaestio) di giovani donne – non madri! – in cerca di libertà e denaro, ostinate, leali, compassionevoli, laddove gli uomini sono spesso violenti e dispotici.

SPASSOSISSIMO, antiretorico, per nulla intellettualoide, lo spettacolo vanta un cast di raro affiatamento e intelligenza, garantendo il difficile equilibrio tra scene (e parti) comiche e scene (e parti) drammatiche e d’amore. Nessuno è fuori posto, tutti recitano nella stessa commedia, che non è una barzelletta: Michele Di Mauro, Fabrizio Contri, Elena Gigliotti, Denis Fasolo, Elisabetta Mazzullo, Gianmaria Martini, Ivan Zerbinati, Lucio De Francesco e Marta Cortellazzo Wiel. Umano troppo umano è l’Arlecchino di Balasso: affamato ma sgobbone, imbroglione ma bonaccione, ingenuotto ma calcolatore, uno che ha per amico il borsello, d cui non si separa mai, ma a cui non piace affatto sentir piangere gli altri. Una delle licenze poetiche dell’adattamento riguarda proprio lui, il cui vero nome è Pasquale: non è Arlecchino, è che lo disegnano così, e infatti le pezze non sono sul vestito, ma sulla sua pelle, incise a forza di cinghiate.
Agitano il fondo nero della pièce anche le luci e i suoni lividi di Pasquale Mari e Arturo Annecchino, e così il finale, amaro e malinconico, mantiene le promesse. Questo è davvero l’Arlecchino servitore di due padroni: il nome proprio nel titolo avrebbe dovuto farci intuire che commedia non è.