La prima volta che ho visto Luigi Meneghello mi è sembrato un essere leggerissimo, non toccava quasi terra, tanto il suo passo era delicato. Mi si è avvicinato e mi ha detto, guardandomi dal basso: “Mi dicono che tu piaci ai giovani…”. Solo più tardi avrei capito che l’ironia di Meneghello non sta in quello che dice, ma in come lo dice. Solo più tardi ho capito che non mi stava affatto facendo un complimento. La frase sospesa sottintendeva un finale inaspettato: “Mi dicono che tu piaci ai giovani, mi dispiace”. Ora l’ho capito anche perchè sono d’accordo con lui: piacere ai giovani non è una cosa di cui vantarsi. È stato grazie alla frequentazione degli spettacoli di Marco Paolini, che ho cominciato ad amare il fiume impetuoso della prosa di Luigi Meneghello. Poi c’è stato un incontro, quello con Gabriele Vacis, che ha generato serate di letture con lo stesso autore veneto. Innanzitutto va detta una cosa: Meneghello può essere letto solo da Meneghello. Si ha come l’impressione che le tante e magari efficaci coloriture che i vari lettori riescono a dare alla potente scrittura dell’autore di Malo, siano quasi un peso, un impedimento al godimento pieno del testo. Poi si sente la voce esile di Meneghello e si resta incantati dalla semplicità di quei suoni, di quei significati antichi. “Libera nos a Malo”, il romanzo popolare scritto in forma colta, che in qualche modo anticipa l’Amarcord felliniano, fa innamorare di sé a prima vista, è un libro divertente, questo è certo, ma è anche un affresco che ama la deformazione del reale e proprio per questo è più veridico, un po’ come certi frangenti degli immaginifici dipinti di Bosch.

Quando si parla con Luigi Meneghello di questo testo, non si può fare a meno di notare un certo astio nei confronti del successo di questo libro presso il mondo intellettuale italiano. Ad una conferenza tenuta all’università di Torino, all’ennesima domanda sul mondo di Malo e sulla provincia del nordest e sul dopoguerra e sulla leggerezza del suo libro, Meneghello, quasi sbottando, ha risposto: “In fondo ho scritto libri migliori di quello!”. È sicuramente vero che quel che resta degli artisti, e soprattutto dei più grandi, non è mai quello che loro vorrebbero restasse, ma è anche vero che gli artisti, i più grandi, toccano le remote corde del sentimento universale quasi senza volerlo. David Lynch ha tracciato un ritratto crudele ma preciso del mestiere dell’artista: “L’artista tira una freccetta contro il muro e poi vi disegna intorno i cerchi per poter dire di aver fatto centro”. Ecco, Luigi Meneghello dà l’impressione di affrettarsi a cancellare i cerchi. Resta il fatto che la tentazione di mettere in scena un meccanismo così perfettamente funzionante è molto forte.

Non poteva sfuggirvi Paolini e non poteva sfuggirvi Vacis, un regista che ama l’arte autentica della parola scritta. Già nel 1991, anno in cui fu messo in scena per la prima volta e con successo “Libera nos” con Marco Paolini e Mirko Artuso, per la regia di Gabriele Vacis, l’immagine tracciata dalla casa inglese dell’autore vicentino negli anni ’60, che si guardava indietro di una trentina d’anni, l’immagine di un nord est rurale, bigotto e spaccone, che scollinava quasi indifferente tra le due guerre, poteva sembrare superata; s’intuiva però nel testo un fondo comune, un sentimento universale, che rendeva i giochi di quegli antichi bimbi, la loro scoperta dei paradossi della fede e del sesso, ancora fortemente attuali. Nella nuova versione dello spettacolo, sempre per la regia di Gabriele Vacis, ci siamo posti il problema di come giocare con le stesse parole 15 anni dopo. Adattando ed ampliando la parte “comica” dello spettacolo, alleggerendo un clima che nella prima versione sembrava cupo, abbiamo insistito sulla parola che narra, rinunciando a quelle parti testuali che forse affascinavano più per il loro ermetismo, tanto caro al teatro “di ricerca”, che per l’effettivo valore estetico. Come un meccanismo a molla, il testo di Meneghello assumeva profondità nella parte “tragica” finale ogni volta che veniva alleggerito nella parte iniziale. Insomma, prendevamo e spostavamo le parole, ma la forza dinamica della rappresentazione non mutava. Nonostante i vari cambiamenti, l’impianto è perciò rimasto identico a quello di 15 anni fa, proprio perchè questa è la cifra di Meneghello: la drammaticità della condizione umana raccontata col sorriso sulle labbra. Ad ogni modo, comunque lo si giri, il testo sembra acquisire vigore ad ogni messa in scena. Capita quasi ad ogni replica che qualche spettatore commenti lo spettacolo che ha appena visto affermando di avere notato nel testo allusioni ad episodi che egli stesso ha vissuto nell’infanzia; il lato incredibile di questa cosa è che gli spettatori hanno le età più svariate, possono essere anche trentenni, per lo più si tratta di spettatori che all’epoca dei fatti narrati non erano ancora nati. Il fatto è che “Libera nos a Malo” di Luigi Menghello parlava di noi prima che noi ci fossimo. Il romanzo popolare dell’autore veneto, mi fa sempre venire in mente un film (uno dei tanti di cui non ricordo il titolo) nel quale un abile alpinista scopre tra i ghiacci il corpo congelato di suo padre, che era scomparso 30 anni prima e si rende conto di avere di fronte a sé un ventenne ibernato. Ecco il paradosso: il padre dell’alpinista è più giovane del figlio. Il testo di Meneghello è più giovane di noi. Insomma, siamo di fronte a un classico. Vien quasi rabbia se si pensa che le scuole, anche e forse soprattutto quelle venete, hanno sempre tenuto ai margini un autore così fresco e vivace, così interessante, così poco convenzionale.

Natalino Balasso