A passeggio nel mondo di Malo

La prima volta che ho visto Luigi Meneghello mi è sembrato un essere leggerissimo, non toccava quasi terra, tanto il suo passo era delicato. Mi si è avvicinato e mi ha detto, guardandomi dal basso: “Mi dicono che tu piaci ai giovani…”. Solo più tardi avrei capito che l’ironia di Meneghello non sta in quello che dice, ma in come lo dice. Solo più tardi ho capito che non mi stava affatto facendo un complimento. La frase sospesa sottintendeva un finale inaspettato: “Mi dicono che tu piaci ai giovani, mi dispiace”. Ora l’ho capito anche perchè sono d’accordo con lui: piacere ai giovani non è una cosa di cui vantarsi. È stato grazie alla frequentazione degli spettacoli di Marco Paolini, che ho cominciato ad amare il fiume impetuoso della prosa di Luigi Meneghello. Poi c’è stato un incontro, quello con Gabriele Vacis, che ha generato serate di letture con lo stesso autore veneto. Innanzitutto va detta una cosa: Meneghello può essere letto solo da Meneghello. Si ha come l’impressione che le tante e magari efficaci coloriture che i vari lettori riescono a dare alla potente scrittura dell’autore di Malo, siano quasi un peso, un impedimento al godimento pieno del testo. Poi si sente la voce esile di Meneghello e si resta incantati dalla semplicità di quei suoni, di quei significati antichi. “Libera nos a Malo”, il romanzo popolare scritto in forma colta, che in qualche modo anticipa l’Amarcord felliniano, fa innamorare di sé a prima vista, è un libro divertente, questo è certo, ma è anche un affresco che ama la deformazione del reale e proprio per questo è più veridico, un po’ come certi frangenti degli immaginifici dipinti di Bosch.

Quando si parla con Luigi Meneghello di questo testo, non si può fare a meno di notare un certo astio nei confronti del successo di questo libro presso il mondo intellettuale italiano. Ad una conferenza tenuta all’università di Torino, all’ennesima domanda sul mondo di Malo e sulla provincia del nordest e sul dopoguerra e sulla leggerezza del suo libro, Meneghello, quasi sbottando, ha risposto: “In fondo ho scritto libri migliori di quello!”. È sicuramente vero che quel che resta degli artisti, e soprattutto dei più grandi, non è mai quello che loro vorrebbero restasse, ma è anche vero che gli artisti, i più grandi, toccano le remote corde del sentimento universale quasi senza volerlo. David Lynch ha tracciato un ritratto crudele ma preciso del mestiere dell’artista: “L’artista tira una freccetta contro il muro e poi vi disegna intorno i cerchi per poter dire di aver fatto centro”. Ecco, Luigi Meneghello dà l’impressione di affrettarsi a cancellare i cerchi. Resta il fatto che la tentazione di mettere in scena un meccanismo così perfettamente funzionante è molto forte.

Non poteva sfuggirvi Paolini e non poteva sfuggirvi Vacis, un regista che ama l’arte autentica della parola scritta. Già nel 1991, anno in cui fu messo in scena per la prima volta e con successo “Libera nos” con Marco Paolini e Mirko Artuso, per la regia di Gabriele Vacis, l’immagine tracciata dalla casa inglese dell’autore vicentino negli anni ’60, che si guardava indietro di una trentina d’anni, l’immagine di un nord est rurale, bigotto e spaccone, che scollinava quasi indifferente tra le due guerre, poteva sembrare superata; s’intuiva però nel testo un fondo comune, un sentimento universale, che rendeva i giochi di quegli antichi bimbi, la loro scoperta dei paradossi della fede e del sesso, ancora fortemente attuali. Nella nuova versione dello spettacolo, sempre per la regia di Gabriele Vacis, ci siamo posti il problema di come giocare con le stesse parole 15 anni dopo. Adattando ed ampliando la parte “comica” dello spettacolo, alleggerendo un clima che nella prima versione sembrava cupo, abbiamo insistito sulla parola che narra, rinunciando a quelle parti testuali che forse affascinavano più per il loro ermetismo, tanto caro al teatro “di ricerca”, che per l’effettivo valore estetico. Come un meccanismo a molla, il testo di Meneghello assumeva profondità nella parte “tragica” finale ogni volta che veniva alleggerito nella parte iniziale. Insomma, prendevamo e spostavamo le parole, ma la forza dinamica della rappresentazione non mutava. Nonostante i vari cambiamenti, l’impianto è perciò rimasto identico a quello di 15 anni fa, proprio perchè questa è la cifra di Meneghello: la drammaticità della condizione umana raccontata col sorriso sulle labbra. Ad ogni modo, comunque lo si giri, il testo sembra acquisire vigore ad ogni messa in scena. Capita quasi ad ogni replica che qualche spettatore commenti lo spettacolo che ha appena visto affermando di avere notato nel testo allusioni ad episodi che egli stesso ha vissuto nell’infanzia; il lato incredibile di questa cosa è che gli spettatori hanno le età più svariate, possono essere anche trentenni, per lo più si tratta di spettatori che all’epoca dei fatti narrati non erano ancora nati. Il fatto è che “Libera nos a Malo” di Luigi Menghello parlava di noi prima che noi ci fossimo. Il romanzo popolare dell’autore veneto, mi fa sempre venire in mente un film (uno dei tanti di cui non ricordo il titolo) nel quale un abile alpinista scopre tra i ghiacci il corpo congelato di suo padre, che era scomparso 30 anni prima e si rende conto di avere di fronte a sé un ventenne ibernato. Ecco il paradosso: il padre dell’alpinista è più giovane del figlio. Il testo di Meneghello è più giovane di noi. Insomma, siamo di fronte a un classico. Vien quasi rabbia se si pensa che le scuole, anche e forse soprattutto quelle venete, hanno sempre tenuto ai margini un autore così fresco e vivace, così interessante, così poco convenzionale.

Natalino Balasso

Attraverso quale velo guardiamo la realtà?

Velodimaya di e con Natalino Balasso è andato in scena al Teatro Gordoni di Venezia: un incredibile successo.
di Chiara D’Ambros (Il giornale dello spettacolo – Globalist.it * 29/10/2014)

Al Teatro Goldoni di Venezia nemmeno una poltrona libera per il debutto del nuovo spettacolo di Natalino Balasso, Velodimaya andato in scena il 25-26 ottobre. Con l’ironia e la comicità che lo contraddistingue, Balasso sale sul palco ed esplicita al pubblico di tutte le età presente in sala, l’unicità della situazione teatrale che succede nel qui ed ora e richiede di essere “più o meno” vivi. Racconta insolitamente dell’oggi in questa pièce dopo aver raccontato nei passati spettacoli il mito greco con Ercole in Polesine, di una vicenda successa negli anni ’30 con La tosa e lo storione, dell’anno zero con L’idiota di Galilea. L’attore con la sua usuale parlata dal forte accento veneto la cui musicalità strappa la risata e talvolta favorisce il fluire della narrazione, ribadisce: “Qui ci sono io, là ci siete voi, c’è un teatro e un teatro c’è anche nella vostra testa”. La realtà che vediamo è quella che ci rappresentiamo, da cui la metafora: “Tutti nella testa abbiamo un Puffo che proietta il film della realtà che vogliamo vedere”. La costruzione della realtà attraverso determinati parametri sociali dettati da chi meglio sa raccontarcela, assieme alle credenze cui siamo soggetti, sono il fulcro di questo nuovo monologo che il comico ha scritto dopo due anni nei quali i suoi videoclip a sfondo sociale pubblicati su yuotube nel canale virtuale Telebalasso, hanno spopolato oltrepassando i dieci milioni di visualizzazioni. L’attore-autore torna più volte a parlare dell’educazione citando recenti studi di neurobiologia riguardanti l’apprendimento e raccontando della sua infanzia passata tra un mondo contadino e un collegio di suore. Non mancano echi del mondo bambino raccontato da Luigi Meneghello in Libera nos a malo, quando Balasso bambino si chiede “Cos’è il peccato di accidia?” Trova come unica risposta possibile il fatto che sia una punizione per aver mangiato troppo, per cui ti viene acidità di stomaco. I bambini nascono tutti indistintamente con enormi potenzialità ma il processo di “normalizzazione” cui la società li sottopone, li limita al punto da impedire loro lo sviluppo di autonomia e consapevolezza. Vivere diventa, quindi, un assumersi il ruolo di detective per scoprire, con pochissime prove a disposizione, chi si è e se c’è un’altra realtà possibile oltre a quella che ci è stata raccontata. Troppo spesso incapaci di perseverare nel proseguo delle indagini, ci si affida alla religione spirituale o del lavoro, o a guru che “più dànno risposte certe, meno sanno ciò di cui stanno parlando”. Si cercano troppo spesso risposte che ci consentano di credere a quello che vogliamo credere e che anziché s-velare aggiungono veli alla realtà, talvolta addirittura teli veri e propri com’è accaduto negli Stati Uniti, nel 2003, durante il proclama dell’allora segretario di Stato Colin Powell sulla necessità dell’attacco all’Iraq per sospetto possesso di armi chimiche. In quell’occasione è stato coperto con un drappo scuro il quadro che era sullo sfondo della postazione da cui Powell annunciava la necessità dell’invasione del paese mediorientale. Il dipinto nascosto era Guernica, che Pablo Picasso realizzò dopo il bombardamento aereo della città omonima durante la guerra civile spagnola.

I toni dello spettacolo si fanno via via più amari. Sul finale l’attore citando Oscar Wilde “Se tu dai una maschera a un uomo, costui ti dirà la verità”, indossa una storica maschera veneziana di cuoio e salendo su un pulpito si chiede “Ma qual è la verità?” e svela una verità possibile e cinica del mondo produttivo di oggi, dominato dalla legge del profitto, della prevaricazione dell’altro, dei consumi, delle relazioni alterate. Sceso dal pulpito e tolta la maschera, il palco diventa buio, solo un fascio di luce al centro lo illumina, Balasso senza più cercare la risata racconta di come un tempo eravamo come lupi forse più selvaggi ma certo più curiosi, mentre ora siamo diventati cani ammaestrati. Buio. Applausi, mentre nei pensieri di alcuni spettatori potrebbe risuonare una riflessione di S.Freud sul processo di civilizzazione: “L’umanità ha sempre barattato un po’ di felicità per un po’ di sicurezza”.

Partiamo dal titolo: “Velodimaya”.
Ho deciso questo titolo tra le tante cose di cui si parla nello spettacolo perché voglio partire dal punto di vista cioè non dalla realtà. Molti parlano della realtà ma io vorrei partire da un po’ prima, cioè vorrei chiedere: “quando noi guardiamo un telegiornale, ascoltiamo un radiogiornale, leggiamo un giornale, vediamo un film, cosa abbiamo capito? Questa è la domanda che mi pongo. Ecco perché Velodimaya riprendendo il concetto di Schopenhauer secondo cui la realtà non è direttamente percepibile se non attraverso sfumature che è poi la cosa che diceva Platone. Ma in questa epoca in cui sembra che tutto sia perfettamente documentato, quindi la gente pensa sia più facile accedere alla verità, alla descrizione della realtà, io credo che oggi più che in altre epoche, salta agli occhi questa cosa, ossia che ci sono molte realtà soggettive, ed è molto difficile capirsi quando si parla della realtà… Il bambino è fondamentale, perché quello che noi facciamo è strettamente legato a quello che abbiamo imparato da piccoli. I neurobiologi ci dicono che dopo i primi tre anni è difficile che apprendiamo qualcosa di fondamentale in maniera così veloce come riusciamo a farlo nei primi tre anni. Noi però ai nostri figli nei primi tre anni non insegniamo assolutamente niente. Questo è il primo grande paradosso della nostra cultura, della nostra società. Un maya di 7 anni che vive nella giungla è autonomo, cioè è capace di costruirsi una capanna, di costruirsi il letto dove dormire, sa andare a caccia, sa campare da solo. Nella nostra società i bambini rimangono inetti sempre più a lungo, si parla sino ai due anni, nei quali il bambino è incapace non solo di badare a se stesso ma di resistere un giorno senza presenza di adulti o di altri umani e questo tempo sembra che si dilati sempre di più. Noi siamo sempre più dipendenti da chi ci alleva, ce ne andiamo sempre più tardi da casa, insomma viviamo in un’epoca in cui si passa direttamente dall’infanzia all’età adulta, non c’è più l’adolescenza. Molte persone di 30 anni sono ancora all’infanzia. Quindi io trovo cruciale discutere di come educhiamo i bambini. Ecco perché nello spettacolo c’è una parte abbastanza consistente che parla da una parte dell’educazione pre scolastica, dall’altra dell’educazione scolastica.
Quando dici ‘oggi’ a che ‘oggi’ ti riferisci?
Quando dico oggi intendo la civiltà informatica, cioè la civiltà che è uscita dalla rivoluzione industriale e si sta ripiegando su se stessa e non è più capace di fare molte cose, viviamo di cose già fatte, mentre quello che facciamo serve tutto alle relazioni da cui l’informatica, la tecnologia informatica. Tant’è che la diffusione dei mezzi sempre più facili da usare come gli smart phone, spinge la gente a illudersi che viviamo in una società in cui è facile dare risposte semplici a problemi complessi ecco perché trionfano gli slogan, ecco perché un politico basta che dica due cose e la gente pensa di aver capito quale sarà la sua politica. La gente non riesce più a seguire i discorsi, siamo al limite dei 140 caratteri, siamo al rischio di una semplicità d’uso del mondo ma il mondo è complesso. Dovremmo essere preparati a questo ma non lo siamo.
Questo ha un legame con il momento dello spettacolo in cui dici “siamo tutti credenti”?
Sì siamo tutti credenti, perché tutti siamo aggrappati ad un mondo metafisico. Ne racconto della realtà noi non siamo capaci nemmeno di avere la coscienza che quello che stiamo vivendo è un racconto, questo chiaramente diventa ideologia, diventa metafisica. Ecco perché è molto facile che una persona dica: “Il mercato può aggiustare le cose”, mentre non si rende conto che il mercato è la somma dei comportamenti degli umani. Ecco perché molta gente vuole cambiare sé stessa e non si accorge che non è cambiando il seno o il naso che tu cambi. Noi non abbiamo bisogno di cambiare, ciascuno di noi è un bell’essere, non ce ne rendiamo conto (perché spesso non sappiamo nemmeno bene chi siamo) mentre non vogliamo cambiare di una briciola i nostri comportamenti. Noi non dovremmo cambiare noi stessi, bensì cambiare i nostri comportamenti, questo però non lo vogliamo fare quindi crediamo che un chirurgo estetico, uno psicologo o un istruttore possano farci cambiare. Questo non può avvenire, sono i comportamenti che devono essere cambiati.
Credi che questa direzione sia stata presa anche perché è cambiata la nostra relazione con il sacro, con quello che era un tempo un punto di riferimento nel bene e nel male, ossia con la religione. Te lo chiedo visto che nello spettacolo entrano più volte riferimenti al nostro rapporto con la religione, appunto.
Sì, non è cambiato nella sostanza, è cambiato nella forma perché chiaramente il precedente atteggiamento era di assoluta sudditanza soprattutto nei confronti dell’apparato ecclesiastico. Per cui la gente si fidava ciecamente, tanto che c’era un’espressione: si diceva “timor di Dio”, cioè la divinità era qualcuno di cui avere paura. C’era l’inferno, anche se oggi molti cristiani dicono: “non è vero che noi crediamo che ci sia l’inferno”. Mentre fino a 40 anni fa nessuno metteva in discussione l’esistenza del paradiso e dell’inferno. Diciamo che c’era una sorta di favola alla quale si preferiva credere e adesso c’è il tentativo di razionalizzare, un po’ come nei film della Marvel quando adesso il super eroe deve fare una battuta ironica sul fatto che ha un costume perché non sembri che lui sia un idiota con il costume. Io devo dire che preferivo i film della Marvel negli anni ’40-’50 quando l’eroe ci credeva, aveva questo costume ma non era un costume, lui era così, almeno quella era pura finzione, puro racconto. Invece l’atteggiamento di razionalizzare ci vuol far credere che noi sì siamo credenti, crediamo in Dio ma con coscienza di causa. Questo intanto ha allontanato molta gente dalla religione come la intendiamo classicamente senza un processo di emancipazione da essa. Questo vuoto spirituale però ovviamente deve essere riempito. Non si spiegherebbero altrimenti i milioni di persone in lacrime alla morte di Steve Jobs, senza un’idea metafisica, ad esempio, della tecnologia informatica.
I toni che usi per raccontare questa tua visione delle cose, sono quelli della comicità, che scegli denunciando il fatto che oggi sembra si possa parlare di cose serie quasi solo attraverso toni drammatici, al di fuori della satira.
No, non è che denuncio questo ma io sto dalla parte di Eduardo De Filippo quando diceva: “L’unico modo oggi di rappresentare il dramma è la commedia”. Io credo che l’arte faccia bene ad abbracciare anche la retorica, è una delle forme dell’arte che si può usare, però il drammatico che si prende sul serio diventa molto più comico del comico. Ecco perché io prediligo Hitchcock, ossia chi vicino al momento retorico, della serietà o della paura riesce ad avere l’ironia di vedere questa cosa da fuori. Questo vale per l’arte e per la vita. Per esempio sappiamo bene che nessuno può offenderti se non ti offendi tu, il motivo per cui ci si offende continuamente è che siamo prigionieri di un loop. Siamo prigionieri di un loop tra due immagini di noi stessi, una ideale, una depressiva e non riusciamo a vederci da fuori. E io credo che anche l’arte debba imparare a fare questo perché se no si cade nella tronfia retorica che però non trasmette più. Siccome l’arte è fatta per comunicare, per trasmettere, credo che quando l’arte non comunica fallisca il suo scopo.
E l’uso del dialetto?
L’uso del dialetto in questo spettacolo non c’è molto. Ad esempio nello spettacolo che sto portando in giro assieme a questo, che è una raccolta di pezzi degli spettacoli degli ultimi 10 anni, ho brani interamente in dialetto, presentati sulla forma del modo che aveva Dario Fo di spiegare il grammelot, per cui io uso la stessa tecnica, spiego prima i caratteri del dialetto, anche questa spiegazione diventa un brano comico in cui la gente si diverte ma afferra le regole e la grammatica di questo dialetto incomprensibile che è il Pavano dell’interno. Dopo di che faccio questi 7-8 minuti in dialetto e la gente capisce quasi tutto. Non credo che il dialetto sia un problema, può anzi essere un valore. Il teatro è l’arte di rendere comprensibile ciò che è il tuo racconto, perché lo rappresenti, non è scritto, è lì e tu lo devi rendere comprensibile. Se lo sai rendere comprensibile puoi portare il dialetto anche all’estero, come l’italiano. Se non lo rendi comprensibile, il tuo è solo teatro di parola e solo chi ha capito quello che stai dicendo, chi ha un codice condiviso capisce, gli altri no.
Un altro elemento che emerge dallo spettacolo è l’impossibilità che ci dà la nostra società di sbagliare.
Sì, e non è tanto l’impossibilità la cosa rilevante quanto la società ti spinge alla paura di sbagliare. Ecco che allora nelle valvole di sfogo dove si può sbagliare l’errore è enorme. Lo si legge per esempio nei social network, in cui persone magari anche equilibrate che sanno formulare un pensiero compiuto, si lasciano andare a infantilismi. Queste sono le valvole di sfogo, è come quello che si ubriaca il sabato sera dopo aver lavorato tutta la settimana e trova questa via dopo l’oppressione dal lavoro. Grande responsabile nell’instillare la paura dell’errore ovviamente uccide la tua creatività. Infatti una delle caratteristiche delle persone creative è il coraggio dell’errore, il coraggio di sbagliare, capire che l’errore fa parte della vita. Se uno è davvero creativo non lo considera nemmeno un errore, tante volte sono gli errori che portano a cose straordinarie, innovative. Prova a pensare agli accordi del Jazz, o di certi blues, precedentemente sarebbero stati considerati errori. Cos’è l’errore? In realtà è qualcosa che sta nella nostra testa, è un racconto. Se io scrivo uomo con l’ “h” la maestra mi corregge, mi dice che si scrive senza ma non è vero, adesso si scrive così, 200 anni fa si scriveva con l’ “h” e magari fra 300 anni si scriverà diversamente. Quindi anche la lingua come il nostro modo di ragionare è un animale in continuo cambiamento. L’errore è solo un altro punto di vista della realtà. Se pensiamo a questi versi che non mi sono più usciti dalla mente:
“E sogno un arte eterea
che forse in cielo ha norma
franca dai rudi vincoli
del metro e della forma”
Arrigo Boito
Ora io mi chiedevo: “un poeta che sogna una poesia che non sia schiava della metrica, che non sia schiava della rima, però è costretto a scriverlo in metrica e in rima perché diversamente la società della sua epoca avrebbe detto che è un cattivo poeta”. Se lui avesse scritto “m’illumino d’immenso” la società del suo tempo avrebbe scritto che lui non è adatto a fare il poeta.
Forse la parola ‘errore’ nel senso di sbagliare ha in sé il senso di ‘errare’ nel senso di vagare.
Di andare, di vagare, sì. “Errare humanum est” forse anche nel senso che è umana la curiosità di andare a sondare altri campi. Infatti l’errore nasce dalla deviazione dalla strada principale. Noi deviamo ma è solo così che possiamo creare nuove strade. E’ un tema eterno. Mi ha sempre colpito un fatto degli accordatori di fisarmoniche. Una volta sono andato a visitare una fabbrica di fisarmoniche che ora è diventata molto artigianale, in Piemonte. Ci spiegavano lì che gli accordatori di fisarmonica non dicono “accordo la fisarmonica” ma “scordo la fisarmonica” perché la devono scordare e quando non c’erano gli accordatori elettronici e non si facevano i pezzi a macchina ma si facevano a mano, quindi l’accordatore era l’uomo, ogni accordatore aveva il suo modo di sbagliare, di scordare la fisarmonica, e da quello capivi chi l’aveva accordata. Questo mi ha fatto capire una cosa importante, la mancanza di errori è mancanza di vita. Il suono perfetto che fa il computer quando simula gli strumenti musicali, ha un algoritmo che inserisce degli errori, perché non c’è altro modo di simulare la realtà che con l’errore. Il suono preciso del computer diventa quasi fastidioso ai nostri orecchi perché non lo consideriamo reale, ed è vero che la realtà è errore, non può esserci realtà senza errore. L’idea che tu debba mirare ad una perfezione, è un’dea che dovrebbe essere superata dal tempo, invece è ancora presente.
A proposito di presente, nel tuo spettacolo citi la politica da Colin Powell, Segretario di stato degli Usa al tempo di George W.Bush, a José Mujica, attuale presidente dell’Uruguay.
Sì io ho preso due discorsi di questi due rappresentanti della politica senza farli perché nello spettacolo non dico dei testi tratti da questi discorsi, ma li ho presi come spunto. Mi è interessato molto il lato “sincero”, tra virgolette appunto, del presidente dell’Uruguay il quale però al contempo deve nascondere al mondo i problemi dell’Uruguay, quindi si capisce che nella politica si può avere un atteggiamento genuino ma la sincerità vera e propria è molto difficile da raggiungere. Però mi era interessato molto un discorso ad un simposio che aveva fatto sull’ecologia, quando aveva detto: “se gli Hindu avessero lo stesso numero di auto per famiglia che hanno i tedeschi davvero pensate che noi potremmo parlare di sviluppo sostenibile, avremmo un mondo inquinatissimo”. Quindi capiamo se noi stiamo davvero governando questa globalizzazione o se ci stiamo facendo governare. Questa cosa mi aveva molto interessato perché noi di solito siamo molto ipocriti, soprattutto quando parliamo di queste cose come lo sviluppo sostenibile, il che significa che noi dobbiamo avere l’opportunità di continuare a svilupparci esageratamente, onestamente come stiamo facendo, lasciando poveri altri paesi, lasciando loro le briciole e dando loro l’illusione di far parte di un mercato. Questo mi aveva interessato. Poi mi aveva interessato anche il discorso di Colin Powell e io parto sempre dal punto di vista del Velo di Maya, perché lui fa un discorso in cui dice che ci sono le armi chimiche, chi stava dalla parte di Bush all’epoca faceva certi discorsi sulle armi chimiche. Allora tu ti chiedi “ma queste bugie sono riusciti a raccontarle alle gente?” io credo che non sia così, io credo che la gente sapesse che erano bugie ma voleva crederci. Ed ecco che torna un atteggiamento religioso.
Quindi molti sono i veli che vogliamo trattenere, cosa che un bambino ancora non fa, non ha ancora tutti quegli imprinting e per questo ha l’impulso di spingersi all’avventura, a quella vera, non come dici tu nello spettacolo “alla scarica di adrenalina che può dare il lanciarsi con il bunging jumping, per poi poter ritornare con rinnovato vigore il lunedì al lavoro, all’ufficio del catasto”.
Fin da piccoli la società ci abitua all’idea che noi dobbiamo conformarci, essere devianti ci fa sentire inadeguati alla società. Poi c’è anche il culto della deviazione per cui è una cosa complessa, magari c’è il bambino che sta deviando, si vede come Franti, si vede accusato dagli altri e questo gli dà piacere perché si sente speciale in questo modo, c’è anche questo lato ma è molto marginale. In verità al bambino viene appunto insegnata la normalità che è una cosa orrenda perché la normalità in natura non esiste. Non esiste in natura l’incasellamento che noi proponiamo, le giornate per esempio non sono mai uguali, una è lunga, una corta, non sono mai uguali la luce non è ma la stessa, non c’è un giorno uguale all’altro, però noi abbiamo bisogno di pensare che ci sono questo tot di ore durante la giornata, quindi dobbiamo avere dei punti di ancoraggio. Questo al bambino viene insegnato da subito, quindi quando nasce è chiaro che è all’interno di una famiglia che è già un’organizzazione che gli ha creato un ruolo che lui o lei non decide. Quindi gli viene chiesto questo, lui o lei deve compiacere i genitori, c’è questo attaccamento che lo spinge ad avere bisogno del loro affetto e se ha bisogno del loro affetto e loro gli fanno capire che comportandosi in un certo modo lo avrà, lui si conforma a questo. Quindi il bambino ha pochissimo spazio di libertà. Io però per esempio penso a com’era difficile per quelli della mia generazione, a com’era diverso alla fine degli anni ’60 quando tu dicevi alla mamma, che uscivi e ti vedevi con gli altri bambini, e avevi 8 anni e guardo l’oggi, vedo che non è più possibile questo, non c’è un bambino di 8 anni che può vivere una vita non blindata. Quindi anche i bambini quando giocano fra loro lo fanno sempre in presenza di un adulto, c’è un accompagnamento continuo, senza autonomia, è chiaro che ci si abitua, anche il cane si abitua all’idea che deve seguire il tuo passo, col tempo questo diventa naturale, non ha più la percezione che vorrebbe fare altro. Il cane vuole assecondarti perché sa che tu gli dai il cibo. Il bambino entra subito in questa dinamica qui. Per cui lo spazio di espressione diventa veramente ristretto e la genialità viene fortemente limitata. C’è un mio amico regista che mi ha fatto vedere una foto e mi ha detto: “Guarda che idea di architettura ha mio figlio” e mi fa vedere che questo bambino ha fatto una casa con un tetto poi delle colonne e in cima gli ha messo un cavallo. Il bambino come dicevo prima non si chiede se sia sbagliato mettere un cavallo in cima a quella costruzione perché per lui non è un errore, per lui è una possibilità.
Per concludere, uscendo dal teatro uno spettatore, dopo aver visto lo spettacolo ha detto “Bello, bellissimo, il problema è che ti fa ridere ma ha tristemente ragione in quello che dice”. Quindi il rappresentare l’oggi in teatro che valore può avere dal punto di vista? Credi che il teatro possa avere la forza di spostare il punto di vista?
Io sono un po’ al di fuori di questa logica, io non mi sento investito del fuoco sacro, né mi sento che io debba essere un educatore del pubblico, perché questo presuppone che io ne sappia di più di loro. Io ho perfettamente coscienza della mia marginalità quindi quello che io presento è un racconto ed è un racconto del mio punto di vista sulla vita, di questo Aleph che ognuno di noi ha. locale, che però vede tutto il mondo, ed è il mio racconto, il modo di far divertire. Se questo contemporaneamente fa ragionare la gente, gli fa pensare delle cose, li mette in crisi, li fa arrabbiare, a me fa anche piacere perché significa che l’arte è una cosa viva e bisogna che lo sia però io credo di non avere uno scopo in questo, io faccio l’unica cosa che so fare che è raccontare delle storie alla gente.

Grande prova di Balasso funambolo del quotidiano

TEATRO NUOVO di MILANO
di (s.sp.) * (10/10/2014)

Due ore e mezzo senza intervallo, e non sentirle. Natalino Balasso è un affabulatore che procede tortuoso tra continue divagazioni e digressioni, eppure avvince con vis comica e intelligenza formidabili. Succede in Stand Up Balasso, monologo senza rete in cui fa il riassunto e il bilancio di dieci anni di teatro in cui ha raccontato miti e storie bibliche, che riprende con aggiunte e variazioni varie da Ercole in Polesine, La tosa e lo storione e L’idiota di Galilea. Solo in scena con una sedia rossa e un vecchio microfono a filo, disincantato fino al cinismo, il comico veneto distilla in un italiano che spesso attinge al dialetto vicende di furbi Ulissi e Ciclopi permalosi, mummie alpine e pistoleri da western, eroi di un’epica improbabile e tronfia che riconduce con humour infallibile e sguardo acuto alle meschinità del quotidiano. Una prova da applauso, che tocca vertici di assurdo in impennate linguistiche spericolate in bilico tra voli pindarici e scioglilingua impossibili. Bravo e generoso.

Ridere di noi giocando coi classici

Ridere di noi giocando coi classici
di Chiara Pavan (www.saltimbanco.it)

Natalino Balasso sosta perplesso davanti ad un’esile pianticella di ulivo, un’occhiata bruciante al compagno di avventura Andrea Pennacchi, un grido gutturale che sembra un’invocazione: entrambi aspettano Godot sotto un albero, come esige il copione, ed entrambi sbeffeggiano (affettuosamente) in dialetto il teatro dell’assurdo di Beckett coi suoi due vagabondi in attesa di qualcuno – Bepi Godò – che mai verrà. Il risultato, esilarante, si condensa in un “assurdo” duetto di voci, suoni e battute straniate in veneto che esalta i meccanismi della comicità più “fisica” ma nello stesso tempo ridicolizza più sottilmente quel teatro freddo e autoreferenziale – non a caso la compagnia che porta in scena la pièce si chiama “Tirarsela con Beckett” – che si allontana dalla realtà e allontana il pubblico.
E’ uno dei pezzi forti del nuovo “Fog Theatre”, lo spettacolo che l’artista polesano porta sul palco del Gran Geox di Padova ogni martedì, dal 26 ottobre al 28 dicembre, cambiando sempre copione, gag e comicità. Biglietto d’ingresso accessibile, 15 euro, 8 euro per chi ritorna a ridere con Beckett, Ibsen, Pinter, Shakespeare, Sofocle o Euripide riproposti e rivisitati nei modi più strani, in dialetto (“così otteniamo fondi dalla regione”) o declamati a voce alta e impostata, tra personaggi surreali che vanno e vengono, suggestivi intermezzi musicali – Veronica Marchi e Patrizia Laquidara – inediti sketch video, gag divertenti sui deliri di coppia, folli lezioni d’arte di quadri che prendono improvvisamente vita.
Balasso si muove abile tra i compagni d’avventura Andrea Pennacchi (foto a destra), Marta Meneghetti, Liyu Jin e Nicolò Todeschini giocando con se stesso e il suo alter ego immaginario, Diego Pilates, uomo volgarotto e di poca “sensibilità” artistica (“rappresenta tutti noi – aveva anticipato Balasso – attori e pubblico. Alla fine scopriremo di essere nella sua mente”) che irrompe in scena, spiazzando e scardinando i meccanismi teatrali più classici delle varie compagnie che “se la tirano” di volta in volta con i classici. Eccolo nei panni di Aiace impazzito che declama davanti ad una ancora più ululante Atena, eccolo goffo calciatore della domenica mentre invade “un sacro palco” shakespeariano chiedendo indicazioni stradali ad un tormentato Re Lear scambiato per arbitro. Eccolo prete sui generis che pontifica dal pulpito contro le ingiustizie della società e del mercato globale, oppure altezzoso divo da palcoscenico che si materializza in scena avvolto in una nuvola di fumo.

Lo spettacolo procede un po’ a salti, tra gag e full immersion in divertenti bignami di pièce classiche su cui sorridere. Dopo tutto, avvertiva l’attore presentando lo show, “il teatro è l’unica forma d’arte nella quale sia gli attori che gli spettatori devono essere vivi e contemporanei”. E il suo “Fog Theatre” vuole essere vivo e contemporaneo. Per ridere di noi, del nostro modo di vivere e sentire teatro, spettacolo, esistenza. Mai come ora legati da un unico, esile filo. Che va scoperto per riattivare emozioni e cervello. E di questi tempi fa sempre bene.

Note su Velodimaya

Un nuovo monologo o un monologo nuovo?

È passato qualche anno da quando ho scritto il mio ultimo monologo per il teatro. Nel frattempo ho partecipato ad avventure teatrali di Compagnia più o meno faticose, come può essere faticoso fare teatro oggi per chi non riceve contributi statali.
Devo dire che questo nuovo lavoro è frutto di riscritture successive, come un intaglio di cui si cerca la misura. Volevo che non fosse semplicemente un nuovo monologo. Volevo che fosse un monologo nuovo.
Chi mi conosce sa che non amo scrivere in teatro pièce sulla contemporaneità. Con Ercole in Polesine raccontavo il mito greco, con La Tosa e lo Storione raccontavo una vicenda quasi vera degli anni ’30 del secolo scorso. Con L’idiota di Galilea ero tornato all’anno zero. Ho sempre trovato stucchevole la rappresentazione che i comici fanno della contemporaneità, con battutine sui politici o sul gossip giornalaro. Ho pensato però che ci fosse, perché c’è sempre stato in teatro, un modo migliore per rappresentare le nostre paure e i nostri desideri di oggi. Su questo modo migliore ho voluto indagare per scrivere un monologo che avesse senso recitare in teatro. Nel quale si ridesse, perché non appartengo a quel razzismo del pensiero che ritiene il comico inferiore al drammatico. Ma un monologo nel quale il ridere fosse una conseguenza quasi necessaria del racconto e non una finalità.
Questo monologo parte da due discorsi pubblici: il primo è il discorso che Colin Powell fece nella sede dell’Onu quando dichiarò che c’erano le prove delle armi chimiche in Iraq. Il secondo è il discorso che il presidente dell’Uruguay Pepe Mujica ha pronunciato anni dopo, in occasione di un simposio mondiale sull’ambiente e sullo sviluppo sostenibile. Mi sono sembrati due pezzi di teatro che raccontano di noi.
Ci troviamo in un giallo in cui dobbiamo improvvisarci detective per indagare con pochissime prove a disposizione. C’è qualcosa di peggiore delle menzogne: sono le false verità che ci costruiamo ogni giorno.
Questo monologo non poteva trascurare l’attenzione che si è creata attorno ai miei video su Youtube. Dieci milioni di spettatori negli ultimi quattro anni, senza nessuna forma di sostegno televisivo o radiofonico sono il risultato di un linguaggio, quel linguaggio è stato ritenuto da molti un linguaggio nuovo, una forma di comprensione del presente che può diventare strumento. Così ho voluto che fosse e così voglio che sia tagliata la comicità di questo mio monologo nuovo, intitolato VELODIMAYA.

Natalino Balasso

Biografia

Natalino Balasso, attore, comico e autore di teatro, cinema, televisione e libri.
E’ nato a Porto Tolle (Ro) il 02 dicembre 1960.
Debutta in teatro nel 1990, in televisione negli anni ’90, in cinema nel 2007 e pubblica libri dal 1993.

Teatro:
Nel 2021 scrive e interpreta la commedia Balasso fa Ruzante (amori disperati in tempo di guerre)con Andrea Collavino e Marta Cortellazzo Wiel per la regia di Marta Dalla Via, produzione Teatro Stabile di Bolzano/ERT Teatro Nazionale. Ripreso nelle stagioni 2022/2023 e 2023/2024.
Nel 2021 scrive e interpreta il monologo Dizionario Balasso (colpi di tag).
Nel 2019 recita ne La Bancarotta di Vitaliano Trevisan (da ‘La Bancarotta’ di Carlo Goldoni) per la regia di Serena Sinigaglia, produzione Teatro Stabile di Bolzano.
Nel 2019 scrive una commedia dal titolo I due gemelli (liberamente tratto da ‘I due Gemelli Veneziani’ di Carlo Goldoni) per la messa in scena di Jurij Ferrini.
Nel 2018 è protagonista dello spettacolo Arlecchino servitore di due padroni, di Carlo Goldoni per la regia di Valerio Binasco, con Fabrizio Contri, Marta Cortellazzo Wiel, Michele Di Mauro, Lucio De Francesco, Denis Fasolo, Elena Gigliotti, Gianmaria Martini, Elisabetta Mazzullo, Ivan Zerbinati. Prodotto da Teatro Stabile di Torino/Teatro Nazionale, ripreso nella stagione 2019/2020.
Nel 2017 scrive e interpreta assieme a Marta Dalla Via lo spettacolo Delusionist prodotto da Teatria srl.
Nel 2017 traduce e adatta Le Baruffe Chiozzotte di Carlo Goldoni dal veneziano all’italiano per la messa in scena di Jurij Ferrini con la produzione del Teatro Stabile di Torino/Teatro Nazionale.
Nel 2017 scrive e interpreta la seconda commedia di una trilogia dal titolo Toni Sartana e le streghe di Bagdàd (La Cativìssima capitolo II) prodotta dal Teatro Stabile Veneto/Teatro Nazionale.
Nell’ottobre 2016 debutta nello spettacolo Il Giardino dei Ciliegi, di A. Cechov per la regia di Valter Malosti, con Elena Bucci, Fausto Russo Alesi, Federica Dordei, Giovanni Anzaldo, Roberta Lanave, Piero Nuti, Gaetano Colella, Camilla Nigro, Jacopo Squizzato, Roberto Abbiati, Alessandro Conti, Eva Robin’s. Prodotto da Teatro Stabile di Torino.
Nel maggio 2016 debutta nello spettacolo Smith & Wesson, testo di Alessandro Baricco per la regia di Gabriele Vacis con Fausto Russo Alesi, Camilla Nigro, Mariella Fabbris. Prodotta dal teatro Stabile del Veneto.
Nel 2015 scrive e interpreta la prima commedia di una trilogia dal titolo La Cativìssima -Epopea di Toni Sartana prodotta dal Teatro Stabile Veneto/Teatro Nazionale.
Nel 2014 scrive e rappresenta un nuovo monologo dal titolo Velodimaya.
Nel 2013/2014 partecipa allo spettacolo Signore & Signori, tratto dall’omonimo film di Pietro Germi, la regia teatrale è di Piergiorgio Piccoli.
Nel 2012/2013 partecipa allo spettacolo Aspettando Godot, con Jurij Ferrini. Ripreso nella stagione 2013/2014.
Nel 2011/2012 rappresenta il monologo intitolato Stand Up Balasso, un’antologia che raccoglie brani dagli spettacoli degli ultimi 10 anni, lo spettacolo è tutt’ora in repertorio.
Nel 2011 scrive e rappresenta il monologo dal titolo L’idiota di Galilea per la regia di Stefania Felicioli con interventi musicali di Mario Brunello, ripreso nelle stagioni 2012/2013 e 2013/2014.
Nella stagione 2010/2011 partecipa come co-protagonista alla tournee della commedia: Rusteghi – I nemici della civiltà da Carlo Goldoni, con Eugenio Allegri e Jurij Ferrini, per la regia di Gabriele Vacis. Ripreso nella stagione teatrale 2011/2012.
Nel 2009/2010 insieme a una giovane compagnia rappresenta Fog Theatre, un happening teatrale di dieci spettacoli tutti diversi, da lui scritti e diretti, ripreso nella stagione 2010/2011.
Nel 2009/2010 partecipa come protagonista alla tournee della commedia shakespeariana La bisbetica domata con Stefania Felicioli, per la regia di Paolo Valerio e Piermario Vescovo.
Nel 2009/2010 continua a portare in teatro gli scritti di Luigi Meneghello con un reading dal titolo Meneghello Reading insieme a Mirko Artuso.
Nell’estate 2008 insieme a Massimo Cirri scrive e rappresenta l’happening Mi manda Baricco.
Nel 2008/2009 interpreta con Laura Curino, Christian Burruano e Liyu Jin, lo spettacolo Viaggiatori di pianura – Tre storie d’acqua, scritto insieme a Gabriele Vacis che ne cura la regia.
Nel 2007 scrive e rappresenta il monologo tragicomico dal titolo La tosa e lo storione, ambientato negli anni ’30 del 900 nel delta del Po. Ripreso nella stagione 2008/2009.
Nel 2005/2006 interpreta lo spettacolo dal titolo Libera nos, tratto dai testi di Luigi Meneghello, per la regia di Gabriele Vacis e successivamente ripreso nella stagione teatrale 2006/2007.
Nel 2004 scrive e rappresenta il monologo comico sulle storie del mito greco dal titolo Ercole in Polesine, in repertorio fino al 2012.
Nel 2003/2004 porta in scena con la Compagnia degli Gnorri, la commedia da lui scritta e diretta dal titolo Dammi il tuo cuore, mi serve.
Nel 2001, 2002 e 2003 Porta in tournee uno spettacolo dal titolo Il Balasciò che raccoglie sketch e monologhi scritti negli anni precedenti in seguito all’exploit televisivo del 2000.
Dal 1998 al 2000 è capocomico della Compagnia degli Gnorri e realizza il progetto di portare in teatro 8 canovacci originali, da lui scritti sullo stile di quelli della Commedia dell’Arte, attualizzando le maschere comiche classiche. La saga s’intitola L’isola degli Gnorri.
Nel 1993 Porta in teatro un monologo surreale scritto con il compianto Maurizio Grande, per la regia di Paola Galassi, dal titolo Il grande Pop corn.

Libri:
Nel 2020 esce Il Grande Libro del Scritore (a cura di Natalino Balasso).
Nel 2014 pubblica un ebook dal titolo 70 scritti brevi sulla piattaforma iBook di Apple.
Nel 2013 pubblica un libro senza distribuzione nelle librerie, intitolato Il libro del scritore che nasce dall’esperienza della omonima pagina facebook la cui pubblicazione è sostenuta dal festival letterario Pordenonelegge.
Nel 2012 pubblica un libro intitolato Dio c’è ma non esiste, una lunga intervista a Dio (ed. Editori Riuniti)
Nel 2010 esce il suo terzo romanzo dal titolo Il figlio rubato (ed. Kellermann)
Nel 2007 esce il suo secondo romanzo dal titolo Livello di guardia (ed. Mondadori).
Nel 2004 firma il suo primo romanzo dal titolo L’anno prossimo si sta a casa (ed. Mondadori)
Nel 1993 pubblica un libro di racconti intitolato Operazione Buco nell’acqua (ed. Sperling & Kupfer).

Partecipazioni cinematografiche:
2023: Gloria!, regia di Margherita Vicario
2022: Il ritorno di Casanova, regia di Gabriele Salvatores
2020: Comedians, regia di Gabriele Salvatores
2018: Lazzaro Felice, regia di Alice Rohrwacher
2014: La sedia della felicità, regia di Carlo Mazzacurati
2010: La passione, regia di Carlo Mazzacurati
2009: Generazione 1000 euro, regia di Massimo Venier
2008: Fuga dal call center, regia di Federico Rizzo
2007: La giusta distanza, regia di Carlo Mazzacurati
2007: Non pensarci, regia di Gianni Zanasi

Cinema fatto in casa:
2023: Ariel -la stanza di sopra, film in abbonamento su Circolo Balasso sulla piattaforma Patreon.com
.2022: Baldus, film in abbonamento su Circolo Balasso sulla piattaforma Patreon.com
.2021: Il Conte Nikolaus, film in abbonamento su Circolo Balasso sulla piattaforma Patreon.com
2020: La Super-Massa, primo lungometraggio condiviso sul canale Telebalasso di YouTube.
2020: Io sono io, io non sono gli altri, primo mediometraggio di Natalino Balasso condiviso sul canale Telebalasso di youtube

Televisione e Radio:
Nel 2019 partecipa al programma satirico Stati generali di Serena Dandini su Rai 3.
Nel 2019 partecipa allo spettacolo Adrian di Adriano Celentano rappresentato al Teatro Camploy di Verona per nove serate trasmesse da Canale 5.
Nel 2015 recita nella fiction 1992, una serie sullo sfondo di Tangentopoli firmata da Giuseppe Gagliardi, in onda su Sky.
Nel 2012 il canale di Rai 5 trasmette gli spettacoli Fog Theatre e Dammi il tuo cuore, mi serve e nel 2011 lo spettacolo Ercole in Polesine.
Nel 2011 recita nella fiction Il segreto dell’acqua per la regia di Renato De Maria che vede come protagonista Riccardo Scamarcio, in onda su Rai 1 .
Nel 2009 partecipa alla trasmissione della Gialappa’s Band dal titolo Maidiregrandefratelloshow nella quale realizza una rubrica intitolata Storia minima dell’arte, in onda su Italia 1.
Nel 2006 e 2007 partecipa alla trasmissione di Radio Due Rai, Caterpillar, con Cirri e Solibello, conducendo la rubrica Mi manda Baricco nella quale recensisce libri e autori inesistenti.
Nel settembre del 2006 è ideatore e conduttore della trasmissione Mitiko, in onda su La7 che vede la partecipazione del giornalista Marco Travaglio e dell’attrice Lella Costa.
Nel 2005 recita nella fiction Padri e figli, con regia di Gianni Zanasi e Gianfranco Albano, che vede come protagonista Silvio Orlando, in onda su Canale 5.
Nel 2004 e 2005 partecipa ai programmi della Gialappa’s band Mai dire Gol etc. in onda su Italia 1.
Nell’estate del 2004 firma un suo speciale in due puntate per Italia 1, dal titolo Natalino Balasso Show.
Nel 2000 fa parte del gruppo di comici che lanceranno la trasmissione Zelig, firmata da Gino e Michele, in onda su Italia 1. Balasso lascerà il gruppo nel 2002, prima che la trasmissione trasbordi su Canale 5.

Altro:
Dal 2012 è autore e interprete di apprezzati video comici a sfondo sociale pubblicati sul canale Telebalasso di youtube.
Dal 2010 ha collaborato con il Fatto Quotidiano.it

Velodimaya

Monologo comico: scritto e interpretato da NATALINO BALASSO
Scene: Rita Scarpinato
Musiche: Nathaniel Basso
Luci & Audio: Suonovivo BG
Organizzazione: Simonetta Vacondio
Produzione/Distribuzione: TEATRIA SRL
Durata: 130′ + intervallo


Non è difficile notare che ultimamente le società occidentali sono tornate a disparità preottocentesche.
Il mito della ricchezza, l’ambizione al matrimonio e alla sistemazione da parte di molte donne, l’assenza di orizzonti non preconfezionati nella testa dei giovani, l’idea del privilegio come effetto fisiologico della gestione del bene pubblico, sono effetti molto presenti, ma che sembravano allontanarsi dalle società evolute. E non solo la sfera occidentale, anche il resto del mondo sembra vivere un’involuzione, il fatto ad esempio che le società che hanno scelto l’islamismo si rivolgano alle forme più rigide di questo pensiero del mondo, sta a significare che l’insicurezza per il futuro porta inevitabilmente al trionfo della superstizione.
Stiamo tornando all’inizio, stiamo passando dal via.
Come possiamo raccontarci tutto questo senza cedere allo sconforto? Solo il teatro può farlo, attraverso la commedia, attraverso l’arte della risata.
Velodimaya è una specie di mappa del pensiero contemporaneo, attraverso un tempo indefinito, nel vortice degli uomini e delle nazioni. Le nazioni moderne non sono nazioni, sono affari. E in tutta questa compravendita, qual’è la verità? Navighiamo attraverso il racconto dei desideri e delle paure dei nostri attuali compagni d’avventura in questo lembo di terra.
Stiamo giocando a un gioco in cui le carte sono truccate e le regole sono tutte da scoprire, è un gioco antico che, quando sembra fare un passo avanti, sta solo prendendo la rincorsa per tornare al punto di partenza.
Siamo dentro un film, ciascuno di noi recita un personaggio, chi meglio, chi peggio, ma tutti facciamo finta.
A questo punto il nostro personaggio è costretto a indagare, come fosse il detective di un film giallo, ci sono solo prove indiziarie, il quadro non è chiaro.
Visti da lontano, in questo nostro affannarci, anche nel nostro inciampare, facciamo ridere.


Note di Natalino Balasso sullo spettacolo “Velodimaya”

Un nuovo monologo o un monologo nuovo?

È passato qualche anno da quando ho scritto il mio ultimo monologo per il teatro. Nel frattempo ho partecipato ad avventure teatrali di Compagnia più o meno faticose, come può essere faticoso fare teatro oggi per chi non riceve contributi statali.
Devo dire che questo nuovo lavoro è frutto di riscritture successive, come un intaglio di cui si cerca la misura. Volevo che non fosse semplicemente un nuovo monologo. Volevo che fosse un monologo nuovo.
Chi mi conosce sa che non amo scrivere in teatro pièce sulla contemporaneità. Con Ercole in Polesine raccontavo il mito greco, con La Tosa e lo Storione raccontavo una vicenda quasi vera degli anni ’30 del secolo scorso. Con L’idiota di Galilea ero tornato all’anno zero. Ho sempre trovato stucchevole la rappresentazione che i comici fanno della contemporaneità, con battutine sui politici o sul gossip giornalaro. Ho pensato però che ci fosse, perché c’è sempre stato in teatro, un modo migliore per rappresentare le nostre paure e i nostri desideri di oggi. Su questo modo migliore ho voluto indagare per scrivere un monologo che avesse senso recitare in teatro. Nel quale si ridesse, perché non appartengo a quel razzismo del pensiero che ritiene il comico inferiore al drammatico. Ma un monologo nel quale il ridere fosse una conseguenza quasi necessaria del racconto e non una finalità.
Questo monologo parte da due discorsi pubblici: il primo è il discorso che Colin Powell fece nella sede dell’Onu quando dichiarò che c’erano le prove delle armi chimiche in Iraq. Il secondo è il discorso che il presidente dell’Uruguay Pepe Mujica ha pronunciato anni dopo, in occasione di un simposio mondiale sull’ambiente e sullo sviluppo sostenibile. Mi sono sembrati due pezzi di teatro che raccontano di noi.
Ci troviamo in un giallo in cui dobbiamo improvvisarci detective per indagare con pochissime prove a disposizione. C’è qualcosa di peggiore delle menzogne: sono le false verità che ci costruiamo ogni giorno.
Questo monologo non poteva trascurare l’attenzione che si è creata attorno ai miei video su Youtube. Dieci milioni di spettatori negli ultimi quattro anni, senza nessuna forma di sostegno televisivo o radiofonico sono il risultato di un linguaggio, quel linguaggio è stato ritenuto da molti un linguaggio nuovo, una forma di comprensione del presente che può diventare strumento. Così ho voluto che fosse e così voglio che sia tagliata la comicità di questo mio monologo nuovo, intitolato VELODIMAYA.

Natalino Balasso

Foto di Velodimaya