di Michele Weiss (Il Sole24ore * 06/02/2020)
Nella rivisitazione firmata da Valerio Binasco, il protagonista della commedia di Goldoni non è una maschera, ma un vero personaggio in carne e ossa, affaticato cronico, campione assoluto nell’arte di sbarcare il lunario. In una Venezia scolorita che è metafora della nostra epoca
Agli antipodi del fortunatissimo trattamento di Strehler, l’Arlecchino servitore di due padroni di Valerio Binasco è una sfida indiretta al maestro, a suo tempo capace di rispolverare la Commedia dell’Arte e di eternarla in uno spettacolo che ha viaggiato e viaggia, da decenni, nel mondo, rappresentando l’Italian Style del palcoscenico. Qui siamo agli opposti, i protagonisti sono trasportati in una Venezia crepuscolare di sapore novecentesco, ben raffigurata da una scenografia di drappi scoloriti che rappresentano antiche magioni sbiadite dal Tempo: ma la vera novità, per non dire l’azzardo, è che in scena non ci sono più maschere, ma personaggi veri e propri, con una psicologia più scolpita rispetto ai tragicomici cliché del Goldoni.
Binasco, che in questi mesi sta portando in tournée anche Rumori fuori scena, rompicapo teatrale che mostra il dietro le quinte della macchina teatrale, è sempre più a suo agio in un teatro post-moderno e malinconico che rivela col sorriso i suoi trucchi e sotterfugi. Così come Rumori, anche l’Arlecchino suona come un epitaffio, di un’epoca che non c’è più e di una classe, la borghesia, ormai spappolata in mille rivoli. C’è differenza, però, con la rabbiosa decostruzione con cui Roberto Latini ha dissezionato la Commedia dell’Arte nel recente Teatro Comico di Goldoni: Binasco beve l’amaro calice facendo attenzione che nel trapasso lui, gli attori e il pubblico ridano a denti larghi e stretti.
Merito senza dubbio di Natalino Balasso-Arlecchino, così scandalosamente distante dalla leggiadra plasticità dell’omologo strehleriano interpretato dai vari Moretti-Soleri-Bonavera. Natalino-Arlecchino è un poveraccio bolso, affaticato cronico, che non punta ad altro che a sbarcare il lunario con un po’ più di agio. E per farlo, si mette nei guai, ovvero si sdoppia servendo due padroni e dando vita a una serie di fatalità e complicazioni da schiantare chiunque. Ma non lui, e qui riaffiora in altri termini, più dialettici, la vera virtù del Truffaldino, ovvero lo spirito di adattamento. E perché questo esprit è un’essenza ante litteram del post-moderno, linfa che Binasco recupera con intelligenza? Perché Arlecchino, addirittura schiacciato da due padroni, riesce sempre a decostruire la verità, a mostrare che c’è una terza via, a prendere tempo e lasciare che i fatti prendano colorazioni diverse. Ai nostri tempi, Arlecchino potrebbe – provocando ma non troppo – diventare un campione del marketing, capace di imporre la sua non-verità come lectio urbi et orbi.
Sono perfetti anche gli altri attori, che rappresentano una “Venessia” in cui non pulsa più nemmeno un ideale, in cui alto e basso/servi e padroni, sono due lati della stessa medaglia, funzionali e sghembi alleati a quel “materialismo di sopravvivenza” che fa pronunciare al povero Arlecchino, bastonato da due padroni per i suoi trucchi, la sentenza che ci fa sentire, ancora oggi, “venessiani” anche noi: «Perché l’ho fatto? Ma per avere due salari!».
In questo materialismo forzato, alias incertezza cronica del nostro tempo – senza ideali e certezze, violento e servile, ma anche dinamico ed eruttivo -, l’unica lezione sembra essere quella di arrangiarsi: Arlecchino, senza avere il fisico, porta un doppio peso, come Sisifo, senza mai la speranza di un sollievo definitivo. A Eduardo piacendo. E in mezzo, ecco l’esplosione di tante battaglie individuali, con Beatrice (Elisabetta Mazzullo) che si emancipa contro il potere delle leggi maschili (applauso, quando lo rivendica, di tutto il teatro, l’Elfo di Milano – ma la pièce è in tournée italiana fino all’estate), e con i due innamorati, sciocchi e instupiditi dal sentimento, che lottano per coronarlo mentre i vecchi manovrano e sorvegliano (eccezionale anche Michele Di Mauro-Pantalone), logori, cinici, manipolatori per interesse personale.
La “Venessia” di Arlecchino riscoperta da Binasco è la metafora della nostra era in cui tutto crolla senza crollare, in cui i cambiamenti sembrano soffocare fino a quando esplodono, senza che li processiamo. Come Arlecchino, che non è più solo una maschera circense ma questo spiantato Sisifo cicciottello, comico suo malgrado, in cui, anche se non lo vogliamo, cogliamo la nostra immagine crepuscolare, come un miraggio scenico che rivela nascondendo la sua vera essenza dietro al vestito della festa, rigorosamente Made in Italy. Con Natalino Balasso, Fabrizio Contri, Michele Di Mauro, Lucio De Francesco, Denis Fasolo, Elena Gigliotti, Carolina Leporatti, Gianmaria Martini, Elisabetta Mazzullo, Ivan Zerbinati.