Il Giornale di Vicenza , 05 dicembre 2005
Artuso e Balasso per l’invenzione di Meneghello
di Antonio Stefani

Vicenza. Quindici anni dopo, si torna a vedere Libera Nos con lo stesso stato d’animo che, presumibilmente, accompagnava Luigi Meneghello quando ogni tanto rientrava a Malo dal “dispatrio” inglese: speranzosi e timorosi di ritrovarvi ricordi esaltanti e momenti di dolore, gioia e struggimento insieme.
Come le vie e la piazza del paese, così la regia di Gabriele Vacis ci accoglie ancora in una sobrietà pronta a svelare inattese magie, scrosci di pioggia (del resto, “s’incomincia con un temporale…”) e squarci di sole, scampanii e orazioni, biciclette e sacranóni. Due candidi teli materializzano foto ingiallite e filmati in biancoenero, una proiezione della memoria che a un certo punto lascia il campo al blu d’un cielo notturno nel quale si trasforma la cartina della nostra pedemontana, dove le stelle sono i paesi, e intanto si percepiscono echi di voci, voli di anzoléti. E poi, sovrana, ecco la parola che ricrea un mondo. Anzi, il mondo. Nominarlo in dialetto è ridargli la sua realtà e insieme la sua follia, perché così lo abbiamo conosciuto ben prima di imparare a ragionare (in un’altra lingua, quella della scuola e della dottrina cristiana).
Giusto, dunque, che la drammaturgia ricavata dallo stesso Vacis assieme ad Antonia Spaliviero e a Marco Paolini si fissi soprattutto sulle pagine dedicate all’infanzia e alla fanciullezza dei protagonisti, la banda dei Cicàna e dei Lòba colta fra giochi di guerra e beate confusioni in materia religiosa, atinpúri da scaricare in confessionale e balón da palleggiare con la Tènica, le acerbe ma generose grazie della Norma e della Carla. E giusto è pure che il testo si pigli le sue libertà rispetto all’opera cui s’ispira, perché sono licenze poetiche pienamente coerenti, confidenzialmente affettuose, come inserire l’autore – Gigi – tra i personaggi. O perché sono segnali precisi.
Tanto per dirne uno: in giro per l’Italia, nessuno avrebbe capito l’apparizione d’un ragazzino pronto a giocare a calcio in maglia nerostellata, ovvero quella dell’U.S. Malo. Meglio allora vestirlo con l’inconfondibile casacca biancorossa del Vicenza, completa della “R” del Lanerossi, a indicare come questa storia venga da questa terra qua. Lo spettatore foresto capisce al volo e noi indigeni ci sentiamo orgogliosi: di una squadra dove son passati Paolo Rossi e Roby Baggio e anche Luca Toni, di un dialetto che ci consola e d’un Meneghello che con quel dialetto ha farcito un’epica universale. Riconosciamolo: non tutti, altrove, si sono goduti fortune simili.
Presente sin dall’edizione primigenia di Libera Nos del 1990, Mirko Artuso ha ulteriormente affinato la propria efficacissima immedesimazione in Cicàna: allampanato com’è se lo porta a spasso con tutta la sua rudezza terragna, la sua irruenza sudata, il continuo senso di sfida ai compagni e alla vita, il candore polveroso della sua ostinazione.
E stavolta, in veste di complice antagonista e io narrante, ha di fronte non più Marco Paolini ma un rotondetto e brevilineo Natalino Balasso di strepitosa levità, capace d’esser comico e malinconico col medesimo tasso di adesione profonda, pronto a sfruttare le più sottili pieghe espressive del cantilenare riflessioni e discorsi in veneto così come Artuso è bravo a renderne la grana più grossa.
Bella coppia davvero, azzeccata anche nella redditizia disparità fisica, capace di far diversamente vibrare ciascuna delle cangianti scene d’un lavoro che ritrova – come puntualmente accaduto l’altra sera all’Astra, esauritissimo – applausi fragorosi. Meritati oggi come allora.