da Luca Benvenuti (Nonsolocinema – 16/12/2019)

Il Teatro Villa dei Leoni di Mira ha inaugurato la nuova stagione il 6 dicembre con La bancarotta di Goldoni, riscuotendo ampio successo di pubblico. Testo poco conosciuto, venne rappresentato per la prima volta a Venezia nel 1741 come rielaborazione di Pantalone mercante fallito, commedia dei Comici che l’autore annoverava tra le peggiori. Ormai trascinato nel vortice del gioco, Pantalone è afflitto dai debiti, rincorso dai creditori, disprezzato dagli ex protettori e abbandonato dalla sua famiglia. La bancarotta appartiene a quei lavori goldoniani in cui gradualmente le maschere cadono in disuso e inizia a delinearsi un’idea di testo più determinato ed esteso, contrariamente alla prassi del recitare a soggetto.

Vitaliano Trevisan ha riscritto la commedia trasportandola ai nostri tempi, modificandone la struttura, i personaggi e il linguaggio. Con stile pungente e sincopato, implacabile e sarcastico, Trevisan non lascia scampo al Veneto che lavora, tra fallimenti, approfittatori e immigrate dell’Est in cerca di fortuna.

L’azione si sposta da Venezia a un qualsiasi centro produttivo del Veneto orientale, rappresentato nei suoi vizi e difetti e in nessuna virtù. La cocaina, in primis, diventa mezzo fluidificante per ogni tipo di rapporto umano, uno strumento capace apparentemente di sciogliere nodi personali, sociali e politici. Il “piccolo imprenditore” Pantalone, il formidabile Natalino Balasso, perde il capitale proprio a causa della droga. Sniffa in continuazione, incurante dei debiti, piangendo la dipartita della cara consorte, l’unica forse in grado di ragionare cum grano salis. Pantalone arriva forse a capire che le disgrazie finanziarie non sono solo il frutto di errori e debolezze, ma il risultato paradigmatico di una più vasta disgregazione di valori della società? Non sembra, se non esita a giocarsi la libertà personale.

Vite in bilico
Pure il valore della “buona” famiglia come garanzia della corretta gestione dell’impresa viene messo in discussione, facendo del malcostume e dell’amoralità le filosofie più diffuse. La nuova compagna di Pantalone, una donna slava interpretata da Marta Dalla Via, non esita a spennarlo, interessata solo a vivere da signora. C’è molto cinismo nel Conte (Fulvio Falzarano) e nel dottor Lombardi (Massimo Verdastro), entrambi relativamente toccati dalla sorte del mercante. Tra tutti i personaggi, i giovani sono gli unici che paiono interessati a cambiare vita. Il figlio di Pantalone, Leandro (Denis Fasolo), è qui un tontolone che recita Shakespeare, innamorato dell’infelice Clarice (Celeste Gugliandolo), succube di una madre magnaccia in carrozzella (Carla Manzon). Eppure, nell’omone che recita Amleto e tenta di rimediare ai danni paterni, viene fuori un’inadeguatezza totale che nemmeno la fuga disperata riuscirà a colmare. Non c’è speranza per nessuno, ma tanto egoismo e rassegnazione, specchio di una società sempre più imbarbarita.

La regia di Serena Sinigaglia punta indubbiamente sull’immediatezza del testo di Trevisan e fa dell’interazione tra personaggi il punto di forza di uno spettacolo assolutamente godibile. Non conta l’epoca, ma quel qualcosa di disumano insito nell’uomo che Sinigaglia riesce a trarre dai personaggi. La scena fissa di Maria Paola di Francesco è l’enorme facciata di una casa diroccata, inclinata come pedana su cui gli attori recitano e dalle cui finestre spuntano. Ci pare chiaro il rimando al terreno che viene a mancare, alla crisi e al vivere in bilico. La stessa di Francesco cura anche i costumi, alcuni in stile, altri di taglio moderno, in un felice dialogo tra Settecento e Duemila.