Andato in scena al Cinema Teatro Cristallo di Oderzo (TV)
di Lorenzo Mucci (Teatrionline * 23/12/2019)
Uno dei grandi meriti del teatro di Natalino Balasso è quello di stimolare nel pubblico lo spirito critico nei confronti della società e delle sue sovrastrutture in cui, nella nostra epoca, da alcuni definita postmoderna, sempre più si tende a confondere la realtà con la narrazione che di essa viene fatta dai media, più o meno tradizionali (radio, giornali, televisione, internet ecc.). Il titolo dello spettacolo, attraverso il riferimento all’antico mito indiano di Maya, divinità che poneva sugli occhi degli uomini un velo per impedire che questi carpissero i segreti degli dei e ripreso dal filosofo Schopenhauer per indicare le limitazioni delle possibilità conoscitive dell’uomo, rimanda proprio a quella specie di filtro che si interpone tra il soggetto e il mondo esterno compromettendone la corretta lettura e comprensione; l’attore veneto lo definisce anche curiosamente “piccolo puffo”, insediato nel nostro cervelletto da cui proietta un film, una sorta di visione onirica che riflette l’idea che ci facciamo delle cose. Il teatro di Natalino Balasso riscatta così l’arte comica dal semplice carattere di evasione associandone l’intrinseco valore ludico alla funzione di provocazione, denuncia, e demistificazione degli inganni perpetrati dalle istituzioni e dagli organi di informazione dominanti o da mentalità diffuse, stereotipi, luoghi comuni e quant’altro possa alimentare la stupidità umana che l’attore polesano ridicolizza ed esorcizza costantemente sul palco interagendo col pubblico, chiamandolo direttamente in causa nel corso dello spettacolo e scuotendo la sua coscienza attraverso il tremito della risata. Insomma un salutare esercizio dell’intelligenza, il suo, esercitato con smaliziata e irriverente verve comica, utile soprattutto alle nuove generazioni per le valenze pedagogiche implicite nei continui riferimenti alla cultura classica, scientifica, religiosa, psicoanalitica, letteraria ecc., che non vogliono essere semplici citazioni ma rimandano al loro valore d’uso come grimaldelli concettuali per un’interpretazione del mondo circostante libera da pregiudizi, rigidità e preclusioni. L’ideologia, spiega con ammirevole semplicità Balasso, è “l’insieme di idee” che ciascuno di noi si costruisce, e non un sistema di pensiero a cui aderire acriticamente: da giovane egli stesso ha rimesso in discussione la netta distinzione vigente all’epoca tra comunismo e fascismo notando che certi comunisti del suo paese mentre manifestavano per la pace e la fratellanza nel mondo si comportavano da fascisti tra le quattro mura di casa picchiando le loro mogli.
Ecco quindi che seguendo il filo rosso del “velo di Maya” e del film mentale creato dal puffo proiezionista Natalino Balasso si sbizzarrisce in una carrellata di scene satiriche sulla politica mondiale e nazionale: paragonando il video in cui compare il Presidente Obama che guarda su un ulteriore schermo televisivo le immagini della cattura e uccisione di Osama Bin Laden, a un programma da tv-spazzatura in cui una schiera di telecronisti sportivi osservano le partite di calcio sui dei monitor la cui visione è preclusa al pubblico, con commenti analoghi a quelli che farebbero di fronte a un film porno; esplicitando, attraverso un adattamento della favola del lupo e dell’agnello, la logica prevaricatoria e mendace del discorso pronunciato dal Colin Powell al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, rivelatosi in seguito una madornale fake news, in cui il Segretario di Stato americano accusa l’Iraq di possedere le armi chimiche, giustificando così l’invasione da parte degli Stati Uniti di quel paese; tacciando di razzismo e bigotta ipocrisia i sostenitori del partito della Lega. Con analoga vis comico-polemica Balasso affronta il tema dell’educazione dei figli stigmatizzando gli effetti nefasti sui bambini del linguaggio “da logopedista” insegnatogli nei primi mesi di vita così come delle favole su Babbo Natale e sulla rimuneratività dei “dentini” messi sotto il cuscino, in anni decisivi per la formazione del loro carattere, come indicato da Freud nei suoi studi sui disturbi della personalità; per passare poi in rassegna, a briglia sciolta, “usi e costumi” odierni, più o meno aberranti, come la selva burocratica in cui il cittadino rimane invischiato tra un’incomprensibile modulistica e il continuo rimpallo di competenze e responsabilità tra i vari uffici; la proliferazione sulla scena mediatica e politica di sedicenti guru il cui illusorio e ingannevole carisma carpisce ipnoticamente il consenso di innumerevoli follower; l’ingenuità disarmante delle teorie complottiste sulle scie chimiche degli aerei o dei convegni in cui gli ufologi fanno a gara nel computo degli avvistamenti di “oggetti non identificati”.
In questa caleidoscopica e carnevalesca rassegna di assurdità contemporanee Balasso si ritaglia uno spazio per rievocare la propria infanzia nella campagna polesana degli anni ’60-‘70, stemperando la vena graffiante in un elegiaco lirismo: come quando racconta di come a catechismo sperimenta il disagio di non poter manifestare di fronte al prete la propria ignoranza di alcuni dotti termini biblici; oppure quando alla scuola dei poveri in occasione del Natale le suore distribuiscono regali scegliendoli casualmente da un mucchio di giocattoli ricevuti in beneficenza e una suora “cattiva” gli sottrae il tanto agognato mitra di latta perché poco adatto a un “bravo bambino” come lui, per sostituirlo con un innocuo e ridicolo telefono a rotelle; oppure quando solidarizza con uno dei suoi personaggi preferiti dei cartoni animati, lo sfortunato Willy il Coyote, continuamente provocato dal supponente struzzo Beep-Beep.
Nel suo irresistibile one-man show, microfono alla mano, Natalino Balasso attinge alle multiformi risorse della comicità: la contaminazione di cultura “alta” e “bassa”, come nella ricapitolazione, tra sacro e profano, di una delle gesta miracolose del profeta israelita Eliseo e del suo servo Gehazi, il concepimento di un figlio da parte di una donna sterile avvenuto in occasione di un loro soggiorno presso la casa della supplice; gag verbali come quella sugli inglesi che pronunciano la lettera “a” con ben due vocali errate, in quanto non corrispondenti a quella scritta; gag fisiche come il disinvolto superamento della mattonella deteriorata notata in un pubblico ufficio da un utente proveniente dal sud del Veneto (il Polesine i cui abitanti sono di origine macedone), con un atteggiamento diametralmente opposto rispetto a quello di un utente del nord del Veneto (i cui abitanti sono di origine celtica) il quale si affretta a misurarla in vista di un’immediata riparazione; il gusto del paradosso e dell’iperbole surreale come nella lettura e commento dei verbali dei carabinieri assimilati ai capolavori letterari di Leopardi, Kafka e Beckett.
Natalino Balasso ha saputo riportare alla ribalta nazionale la ricchezza della cultura veneta, sul solco della grande tradizione attoriale otto-novecentesca che da Ferruccio Benini e Cesco Baseggio giunge fino a Marcello Moretti e Marco Paolini (per citarne solo alcuni). La sua comicità rimane saldamente ancorata alle origini popolari, facendo ricorso ai tratti tipici di ingenuità, arguzia e istintualità primarie (come fame e sesso) della maschera dello zanni, nella sua variante radicata nell’area polesana, sulla cui peculiare parlata e fisicità, Balasso modella il suo originale stile affabulatorio (con procedimenti analoghi a quelli sperimentati da Dario Fo e da molti rappresentanti del successivo teatro di narrazione) utilizzato non come semplice nota di colore che strizza l’occhio a un folklorismo di maniera, ma come espressione di una dirompente carica vitalistica, contestatrice e rifondatrice “dal basso” di modi di pensiero e di vita collettivi.