di Roberto Mussapi (Avvenire * 10 ottobre 2018)

TORINO
Spettacolo pieno, felice e addolorato, la scena sempre caravaggescamente densa del movimento, del respiro, del corpo e della voce in corpore degli attori. L’illusione scenica è compiuta, se lo spazio del teatro è un vuoto che attende di essere riempito, da persone e voci che si dissolveranno alla fine della recita, per non mai più svanire. Valerio Binasco, con questo suo Arlecchino servitore di due padroni (produzione Teatro Stabile di Torino, in scena al Teatro Carignano di Torino fino al 28 ottobre) realizza quanto nelle sue considerazioni, annotazioni, intenzioni, intuizioni, sperava di fare: un nuovo tassello del neorealismo italiano, quello che nasce dal cinema di De Sica e Rossellini, passa alla commedia cinematografica, e in alcuni casi, qui pienamente, si rimanifesta in forma nuova nel teatro. Perché la storia di Arlecchino servitore di due padroni è anni luce più profonda della figura del doppio, banale in Plauto, nevrotizzante in tanto romanzo e nel teatro moderno, freudopatico: lo sdoppiamento che Goldoni realizza con l’ingenuità giocosa e avventurata del genio, è rappresentazione della natura umana stessa. Non scissa, ma informata da almeno due anime, in realtà molte anime, come attesta il costume di Arlecchino, multicolore quanto disordinato, enigmatico mosaico.
Mettere in scena questa commedia significa affrontare un mito: l’Arlecchino di Strehler è uno dei capolavori in cui l’opera dell’autore e quella del regista si fondono indissolubilmente: con questo Goldoni e con La tempesta di Shakespeare il massimo regista del Novecento fonda due archetipi, che stanno ai prototipi come l’anima al pensiero. Binasco lo sa benissimo, e lungi dal prendere le distanze dal capolavoro, o dal proporne una lettura “più intelligente, come a volte accade in casi analoghi, vi si accosta nel modo più profondo: Le invenzioni di Strehler per rivisitare per quanto è possibile- la Commedia dell’Arte sono insuperabili, e si sono espresse con una nettezza che rende inutile e frustrante qualsiasi tentativo di incamminarsi sulla medesima strada”.
Binasco sa che un capolavoro teatrale, come poetico, conosce molte letture, che non si escludono vicendevolmente, conglomerandosi, invece, come avviene per le galassie. E quando umilmente sottolinea di scegliere, nell’opera di Goldoni, una dimensione umana, che inscrive nel dramma e modula in un moderno stile neorealista, offre un’altra, nuova, necessaria lettura di questo capolavoro. Che non è esclusivamente il prodigio fanciullesco e sulfureo della maschera di Arlecchino (qui un Balasso piegato, franto, bolso e avvilito testimone della cognizione del dolore).
Binasco regista e quindi autore, cera e inscena un Arlecchino che mostra e svela come ognuno di noi, attore o spettatore, conosca una duplice e anzi molteplice onesta servitù alla vita, nel suo enigma, nel suo manifestarsi spesso caotico e franto. C’è dolore e dramma, accanto ad Arlecchino, un delitto che in genere è utilizzato come espediente scenico e qui invece accentuato come sinistro sintomo della scena a cui stiamo assistendo. Il dolore della recita. Magistralmente animata dal regista, coralmente eseguita da interpreti nessuno dei quali insufficiente (e parlo della prima assoluta, poi c’è il rodaggio), alcuni eccellenti, come, oltre al citato Balasso, il Pantalone Michele Di Mauro, che è uno dei maggiori attori italiani di teatro e non dall’altro ieri, un Fabrizio Contri che nel ruolo del Dottore ha anche inserito una magnifica reincarnazione di Edmondo Vianello (reincarnazione, non calco), una Elisabetta Mazzullo, Beatrice straordinaria, lei sì sdoppiata in se stessa, per finta, tragicamente. Arlecchino deve dividersi per sopravvivere, lei fingere per affrontare lo spettro della morte e il sogno della vita. E in tutto questo, lo spettacolo ci fa anche, sanamente, ridere.