Il Gazzettino di Belluno – 21 Gennaio 2007
Il Veneto nostalgico di Balasso e Artuso
Grande successo per lo spettacolo tratto dal capolavoro di Luigi Meneghello, in scena a Teatro
di: Dino Bridda

Si inizia ridendo di gusto, si finisce con una piega amara alla bocca ma, soprattutto, pensando. E’ frutto delle suggestioni del capolavoro di Luigi Meneghello “Libera nos a malo” che hanno ispirato lo spettacolo, firmato da Gabriele Vacis con i testi suoi, di Antonia Spaliviero e di Marco Paolini, interpretato da Natalino Balasso e Mirko Artuso e andato in scena al Comunale per la rassegna teatrale del Circolo cultura e stampa.
Si inizia con un’immersione totale nella causticità della parola dialettale che non può non strappare sorrisi e risate, tanto è intrisa di termini sapidi che rivelano suono e colore più efficaci della lingua scritta. Si può continuare a sorridere quando i due attori, in una sapiente altalena tra la narrazione attuale dei ricordi e la loro reinterpretazione drammatizzata, si lanciano in una sorta di orgia verbale che va da “pissìn” a “scoassara”, da “punaro” a “lanpi s’giantizzi”, da “nudo patoco” a “tempelare”. Ma quando arriva, scritta anche a caratteri cubitali sul lenzuolo di scena, la parola “ati impuri”, si comincia a capire che sta per iniziare la rappresentazione della nostra infanzia e adolescenza, vissuta in quel “profondo” Veneto degli anni Cinquanta che per molti di noi è ancora lo scrigno gelosamente custodito dei ricordi, se non più belli, almeno più marcati e indelebili.
La protagonista diventa allora una sana prurigine preadolescenziale che ci accompagnò, mentre cercavamo di scoprire i segreti della vita, ed era, allo stesso tempo, alimentata e repressa da mille tabù sessuofobici e da altrettante ipocrisie non del tutto sdoganate nel “bianco” Veneto ove i “schèi” erano ancora pochi. Balasso e Artuso finiscono così per dipingerci con perfetto realismo, come fece in profondità la penna di Meneghello, più di qualsiasi indagine sociologica. Lo fanno bene esorcizzando gli interminabili giochi all’ombra della canonica o nella libertà dei campi, le prime avventure amorose di paese, la fatica del lavoro, la diaspora migratoria, il ritorno a casa, le miserie dell’età adulta quando cadono anche le ultime illusioni.
Si finisce con l’amaro in bocca, sì, perché gli anni Cinquanta sono lontani, sepolti. Poi venne il “Nord Est” a farci faticare per capire ancora chi siamo nel Veneto d’oggi.