di Enrico Fiore (Controscena.net * 12/10/2018)

TORINO – “Questo vide nella commedia, e mirò a instaurarvi non gli elementi formali e meccanici, ma l’intero organismo, sopra questo concetto: che la vita non è il gioco del caso o di un potere occulto, ma è quale ce la facciamo noi, l’opera della nostra mente e della nostra volontà”.
E’ quanto di Goldoni scrisse De Sanctis. E subito ho ripensato a quella considerazione, mentre assistevo all’allestimento di “Arlecchino servitore di due padroni” che ha aperto al Carignano, per la regia di Valerio Binasco, la stagione dello Stabile di Torino: un allestimento ch’è l’esatto contrario della celeberrima messinscena di Strehler, fondata, come sappiamo, sull’esaltazione dei risvolti da Commedia dell’Arte che connotano il testo in questione, e dunque -nell’ambito di un esercizio di stile- proprio sugli “elementi formali e meccanici” di cui parla De Sanctis.
L’allestimento di Binasco somiglia a quello di Strehler unicamente perché anch’esso, nel titolo, antepone al titolo di Goldoni (“Il servitore di due padroni”) il personaggio principale della commedia, per giunta chiamandolo Arlecchino, secondo la variante più nota e popolare della maschera, e non Truffaldino, secondo il testo originale. Per il resto, Binasco imbocca una strada diametralmente opposta: via le maschere, via il gran picchiare di talloni sul palcoscenico, via i lazzi (a partire, s’intende, da quello fatidico della mosca), qui s’accampa il minimalismo realistico della quotidianità, nella circostanza spinto ad occhieggiare -dice il regista- l’umanità che “ha abitato il nostro mondo in bianco e nero, si è seduta ai tavoli di vecchie osterie, ha indossato gli ultimi cappelli (…) e poi è svanita per sempre, nel nulla del nuovo secolo televisivo”.
Davvero s’avverte, nelle parole di Binasco, l’eco del rimpianto che manifesta Pantalone nella quattordicesima scena del secondo atto: “Ghe xe anca una certa locanda sora Canal Grando, in fazza alle Fabbriche de Rialto, dove che se magna molto ben; son stà diverse volte con certi galantomeni, de quei della bona stampa, e son stà cussì ben, che co me l’arrecordo, ancora me consolo. Tra le atre cosse me ricordo d’un certo vin de Borgogna che el dava el becco alle stelle”.
D’altra parte, Binasco sembra proprio riprendere l’affermazione di De Sanctis (“la vita è quale ce la facciamo noi, l’opera della nostra mente e della nostra volontà”) quando si riferisce a un Arlecchino che insegue il “riscatto sociale” e “riesce a portare scompiglio nell’ottusa società borghese, con una carica che suo malgrado si può perfino dire “sovversiva”.
Si tratta di una lettura oltremodo fondata. Perché agli artefici che tanto piacquero a Strehler il testo di Goldoni accompagna l’atteggiamento di rivolta contro i padroni reiteratamente manifestato anche dai più umili fra i servi, i facchini: vedi l’insistenza con cui chiedono di essere pagati (il “la me paga” ripetuto tre volte nella settima scena del primo atto) e che finisce persino nel conato violento (“Adessadesso ghe butto el baul in mezzo alla strada”, quindicesima scena del primo atto). Senza contare che il famoso ritmo ternario del dialogo goldoniano (“La passione mi fa diventare ardita, temeraria, incivile”, “In questa vita per lo più o si pena, o si spera, e poche volte si gode”, “Siete un vile, un codardo, un plebeo”, e così danzando) qui viene, a tratti, spezzato da doppi sensi che possono essere solo scherzosi (Beatrice, travestita da Federigo Rasponi, dice a Clarice: “Certo che non posso darvi quella consolazione, che dar vi potrebbe il vostro Silvio”, scena ventesima del primo atto) o, addirittura, sfociare nell’allusione a un rapporto incestuoso (Brighella, riferendosi allo stesso Federigo Rasponi e a Beatrice, racconta a Pantalone che “lu el giera innamorà de sta so sorella”, scena prima del primo atto).
Ebbene, l’allestimento risulta perfettamente in linea con le premesse sviluppate da Binasco nelle note di regia. E tanto a partire dall’impianto scenografico di Guido Fiorato: scarsi arredi che annegano nel vuoto, porte che si aprono e chiudono senza essere inserite in una parete, cambi d’ambiente accennati a mo’ delle dissolvenze incrociate del cinema da pannelli che scendono dall’alto.
Insomma, vengono completamente “straniate” la lettera e la superficie della trama goldoniana. Fino a quella Smeraldina che passa e ripassa in bicicletta e a quell’Arlecchino che -lontanissimo le mille miglia dai salti e dalle piroette dei Marcello Moretti e dei Ferruccio Soleri- appare come un poverocristo rotondetto e persino un po’ tonto, di null’altro desideroso (a parte, s’intende, il mangiare) che di stravaccarsi su un divano o una sedia. In breve, abbiamo qui, finalmente, un Goldoni sottratto all’aura di leziosità in cui viene di solito imprigionato e, invece, collocato sul piano eminentemente storico che gli compete.
Infatti, ecco che Binasco, molto intelligentemente, da un lato porta in superficie, esasperandolo, il sottotesto velenoso della commedia (il citato “la me paga” pronunciato sei volte, il doppio che in Goldoni, e il commento di Pantalone, “xe un amor cattivo”, alla battuta “lu el giera innamorà de sta so sorella”) e, dall’altro, s’inventa un finale che affoga la speranza di Arlecchino (“Ho fatto una gran fadiga, ho fatto anca dei mancamenti, ma spero che, per rason della stravaganza, tutti sti sori me perdonerà”) in una luce livida che a poco a poco si spegne, senza che dai “siori” arrivi alcun segno d’indulgenza.
Risulta in tal modo sottolineato come meglio non si sarebbe potuto il nodo decisivo della questione: Goldoni, in quanto appartenente alla borghesia, non poté non farsi vessillifero, a teatro, di quella classe imprenditoriale che aveva soppiantato l’ormai esangue (economicamente parlando) e parassitaria nobiltà; ma nello stesso tempo, in quanto lucidissimo intellettuale, non poté non bollare, della borghesia medesima, l’astenia morale, il cinismo e la prevaricazione nei confronti dei sottoposti.
Infine, sul piano dello spettacolo in sé, si capisce che tutto vien demandato al gioco degli attori. E la compagnia in campo è senz’alcun dubbio all’altezza del compito: mi limito a citare, fra gli altri, Natalino Balasso (Arlecchino), Michele Di Mauro (Pantalone), Fabrizio Contri (il Dottore), Denis Fasolo (Silvio), Elena Gigliotti (Clarice) ed Elisabetta Mazzullo (Beatrice).
Ma, per concludere, voglio parlare di Marta Cortellazzo Wiel. Interpreta Smeraldina. Ed è bravissima, e addirittura deliziosa nella scena in cui Arlecchino e Smeraldina confessano vicendevolmente d’essere innamorati l’uno dell’altra. Poi, al momento dei ringraziamenti, Marta si commuove fino alle lacrime di fronte agli applausi. Fra i troppi suoi colleghi che hanno il puro mestiere stampato in fronte, lei è ancora capace di fare il proprio lavoro con emozione. E allora, per me, quelle lacrime costituiscono la cosa più significativa che si sia verificata a teatro negli ultimi tempi.