INTERVISTA
di Alessandra Comazzi (TorinoSette * 5/10/2018)

Natalino Balasso, attore, scrittore, capocomico, “un commediante nella rete”, come lui stesso si definisce, essendo anche autore di Telebalasso, canale YouTube ricco di seguitissimi video: è il protagonista “Arlecchino servitore di due padroni” di Goldoni, lo spettacolo che lunedì 8 inaugura al Carignano la stagione del Teatro Stabile, per la regia di Valerio Binasco. L’allestimento, realizzato con il sostegno della Fondazione CRT si replica a Torino fino al 28 ottobre. Poi, tournée fino a metà dicembre.
Gli spettatori teatrali hanno negli occhi e nei ricordi l’Arlecchino di Ferruccio Soleri e la messa in scena di Giorgio Strehler: come sarà il suo, di Arlecchino?
“Sarà frutto del lavoro molto sapiente svolto da Valerio Binasco sull’opera di Goldoni. Lui ha fatto un’operazione chimica per raccogliere il principio attivo delle scene. Che tipo di Italia vogliamo rappresentare? Goldoni narra il mondo come lo conoscevano gli spettatori di allora: Binasco, che vedrei bene come regista di film, ha immaginato lo stesso racconto restituito e rafforzato. Sarà una commedia corale, non al servizio di numeri di giocoleria, di attori funamboli. Il lavoro goldoniano, del 1745, era fatto a misura del suo primo interprete, Antonio Sacco. Il protagonista non si chiamava nemmeno Arlecchino, ma Truffaldino e il titolo era soltanto “Il servitore di due padroni”. Fu Strehler che lo trasformò. Noi racconteremo di questo servitore che comincia a inventarsi due padroni per tenersi due lavori: il mio sarà un Arlecchino molto vero, uno che non ama mentire, ma che talvolta è costretto a farlo per tirare avanti. Ci sono momenti comici, certo, ma il tentativo è quello di far prevalere la vicenda sul virtuosismo degli interpreti”.
Più commedia all’italiana che Commedia dell’Arte?
“Non c’è la volontà di raccontare l’Italia, ma di raccontare una vicenda. Dove i personaggi restano maschere universali. Quindi, certo, adattabili anche ai nostri giorni. Goldoni è usato come uno strumento per narrare questa storia che ci pone dei temi: povertà, potere, rapporti tra genitori e figli, disperazione. Ci sarà anche un po’ di noir, ci sarà la paura della violenza. Ma la drammaticità viene mitigata dal divertimento e dal gioco. Insomma, Arlecchino è un classico anche se non lo vogliamo”.
L’ultima volta che lei venne a Torino, due anni fa, era con “Il giardino dei ciliegi” di Cechov, regia di Walter Malosti. Prossimo giro? Shakespeare, Pirandello?
“Io non cerco gli autori, cerco i registi, e mi affido. Se qualcuno mi proporrà un altro classico, perché no. In fondo i classici sono tali perché riusciamo sempre a trovarci qualcosa che parla di noi”.
Nel suo lavoro di attore e di autore, lei affronta spesso temi contemporanei: crede nella funzione sociale dell’attore?
“Ma la funzione sociale ce l’ha ogni individuo, ce l’ha l’attore come ce l’ha lo spettatore. Dire che l’attore ha una funzione più sociale degli altri è solo volersi dare un po’ di importanza”.
Lei è nato a Porto Tolle, in provincia di Rovigo, nel 1960: quanto l’essere veneto ha influito sul suo lavoro?
“Non molto. Ho vissuto in tanti luoghi del Veneto, non sento le mie radici in un posto specifico. Certo il radicamento territoriale permette di capire meglio dei tipi. Ma il veneto è solo un incidente, sarebbe uguale se fossi nato in Piemonte: i miei tipi me li cercherei lì”.
Come ha cominciato?
“Per caso. A Bologna, facevo il comico. Andavo per osterie e in cambio di un piatto di minestra proponevo il mio pezzo”.
Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta, come canta Guccini?
“Sono ancora aperte ma con altri prezzi. Poi sono passato a fare teatro, senza aver frequentato una scuola, e sono stato fortunato. Per me il teatro è un rito, che ha bisogno di tre elementi: un racconto, gli attori, il pubblico. Tutto il resto, il regista, la luce, la scena, può non esserci. Ma questi tre elementi sono indispensabili. E quello dell’attore per me è sempre un gioco: ciò non vuol dire che non si debba fare seriamente, anzi, in tante lingue recitare si dice come giocare. La tecnica si apprende, mentre il gioco si fa. Io non vado a teatro a vedere gli attori bravi, ma quelli che mi piacciono. Il mestiere non è tutto”.
Le spiace non essere andato a scuola di recitazione?
“Mi spiace, ma ho avuto la fortuna di lavorare con attori migliori di me e ho imparato molto dagli altri. Se avessi lavorato con Binasco dieci anni fa, adesso sarei più bravo. La verità è che io mi considero davvero e sempre un fallito: quello che volevo fare era giocare nell’Inter. Una volta che non sono riuscito a giocare nell’Inter, tutto il resto è hobby”.
Lei è anche capocomico: come le riesce?
“Faccio il capocomico per raccontare cose mie. Sono proprio formule diverse. Come l’ultimo spettacolo, “Delusionist” che ho scritto e interpretato con Marta Dalla Via”.
Lei ha lavorato a Zelig: ama la tv?
“Mi è piaciuto misurarmi con il mezzo, ma per l’appunto lo ritengo un mezzo, non un fine. La tv è talmente prevaricatrice che basta a se stessa, non ha bisogno di contenuti ma di sponsor”.
Su Telebalasso parla con accento veneto forte e pastoso, ora come un doppiatore: quale sarà la lingua del suo Arlecchino?
“Parlerà in veneziano. Così Pantalone, che è Di Mauro, bravissimo, si esprimerà in veneziano. Ma quando Goldoni prevede l’italiano, italiano sarà”.