di Dario Del Vecchio (MilanoTeatri * 9 febbraio 2018)

La cativissima capitolo secondo. Un numero sorprendentemente elevato di personaggi per uno, al contrario, sorprendentemente basso di attori in scena. Tutti di istrionico livello, tutti perfettamente sincronizzati con l’oramai celebre stile drammaturgico di Natalino Balasso. Uno stile in cui anche la battuta che a orecchie più raffinate potrebbe apparire facile risulta graffiante e incisiva per merito di un cast che ne regge, per due ore, il ritmo portato all’eccesso e ne sostiene l’incanto grottesco, che quasi attinge dal fumetto e dal genere di animazione. Un immaginario sorretto anche dalle scelte estetiche effettuate per la scena e le luci di Roberto Tarasco, che mette al centro di tutto il demiurgo regolatore della contemporaneità così com’è descritta dallo spettacolo: il denaro.
In questo nuovo capitolo della trilogia dedicata al personaggio di Toni Sartana, Balasso ne racconta l’ascesa e la rovina. Sartana si fa espressione di un mondo che sempre più sta perdendo il senso delle proporzioni, che sempre più è diretto verso il declino. Per citare la sua stessa nota di regia, siamo sulle tracce di una rovinosa discesa interiore verso gli inferi, che scaturisce da ascese esteriori, ovvero da tutto ciò che siamo abituati a chiamare progresso. Per raccontare questa parabola, o forse sarebbe meglio definirla una vera e propria caduta libera, l’autore e protagonista si muove con grande sapienza tra citazioni colte e riferimenti più mainstream, che vanno da Game of Thrones alla Guida galattica per autostoppisti, passando per il decadimento festaiolo de La grande bellezza.
Proprio le tre streghe che danno il titolo alla vicenda, citando il Macbeth, ne diventano motore propulsore comparendo al protagonista, per la prima volta, durante una grottesca missione militare in Iraq il cui obiettivo è la liberazione di alcuni prigionieri, e salutandolo al suono raccapricciante di “salute a te Sartana, che sarai amministratore delegato”.
Ma la magia arriva sempre con un prezzo. Da quel momento inizia un’ascesa economica da subito quasi incontrollabile, che lo vedrà sempre più arricchito e, allo stesso tempo, frustrato da un circolo di affari e di arrivismo che parte dal commercio di jenas alla moda e giunge al traffico internazionale degli armamenti destinati alle guerre mediorientali.
Come in una trama del bardo, l’avventura del protagonista si fa carico di rappresentare e raccontare la mono-direzionale sete di denaro e potere di una classe sociale composta da dirigenti incompetenti e inconsapevoli di essere unicamente delle minuscole pedine in un grande gioco che punta inesorabilmente all’autodistrazione. Sartana è, in questa visione, un po’ Macbeth e un po’ Riccardo III, destinato a implorare pietà, a voler cedere il proprio regno per un cavallo.
Un viaggio verso la propria inesorabile sconfitta, in cui i personaggi maschili appaiono come piccole cavie, ignari del labirinto in cui si trovano a correre su e giù ed esattamente speculari, invece, alle donne della trama. Queste appaiono, infatti, prima fra tutte la signora Sartana (una splendida Francesca Botti), violente e senza scrupoli e perfettamente in grado di muovere i fili del gioco a loro piacimento, seppure anch’esse entreranno a far parte di un ingranaggio di cui difficilmente potranno governare, a lungo, il funzionamento.
Come spesso in Shakespeare, la voce della verità più cruda, la voce della morale che chiama i protagonisti ad alzare la guardia contro le loro stesse azioni, è rappresentata dai personaggi minori e di estrazione sociale meno elevata. Siano essi autisti o segretarie alle prime armi e poco istruite, ricordano, a noi che assistiamo, che abbiamo una coscienza da salvaguardare. Ci mettono sul chi-va-là rispetto alle nostre stesse invidie e gelosie, spesso alla base del nostro agire più sconsiderato, ma rimangono naturalmente inascoltate dagli altri caratteri.
Tony Sartana e le streghe di Bagdàd è una surreale commedia di intelligenza sopraffina, che ci mette davanti alle nostre stesse streghe, quei mali della società che sibilano quotidianamente alle nostre orecchie attraverso le radio, le televisioni e gli altri canali di informazione e che, per nostra sopravvivenza, fingiamo di non vedere o di non saper comprendere. Si ride. Si sorride. Ma dentro, almeno un po’, si piange anche. Per fortuna per noi.