Negli “Amori disperati in tempo di guerre” ci sono le verità della vita: lui, lei e l’altro, ignoranza e conoscenza, poveri e potenti, l’onestà e la menzogna. E la vis comica brilla.

di Lorenzo Parolin (Il Giornale di Vicenza – 4 dicembre 2021)

SCHIO

“Questo è stato sicuramente il più bello spettacolo al quale abbiate mai assistito”. Lo dice scherzando, Natalino Balasso, giovedì sera all’Astra di Schio al calo del sipario di “Balasso fa Ruzante – Amori disperati in tempo di guerre”.

Si sorride, attori e pubblico, ma Balasso non è così lontano dal vero. Nel senso che la pièce, un’ora e un quarto di teatro nel quale c’è modo di ridere, pensare e commuoversi, è un lavoro che si presta a diversi livelli di interpretazione. Un lavoro nel quale “xe come al teatro. El falso l’è vero, el vero l’è falso”. Va precisato che non si tratta di un testo di Ruzante, ma “alla Ruzante”, nel quale il poeta vissuto a Padova mezzo millennio fa si trasforma in personaggio ed ha le fattezze di Balasso. Accanto a lui la giovanissima moglie “la Gnua” (Marta Cortellazzo Wiel, non ancora trentenne ma ricca di personalità) e il compare Menato (Andrea Collavino). A dirigerli, Marta Dalla Via, attrice di punta del panorama veneto, ma anche regista di qualità. Non è il Ruzante originale, ma, per cominciare, va fatto un elogio agli attori. Lo meritano per la le loro parlate colorate con una leggera inflessione chioggiotta, la più simile, oggi, alla lingua pavana inventata da Ruzante cinque secoli fa.  E’ un particolare, ma non di poco conto. Si apre in un borgo immaginario, non così lontano da Padova da non sentire l’influsso di “queli là che ganno l’università e sono studiati”, non così vicino da aver appreso i modi di città. Il sapere e l’ignoranza, intanto.

L’intreccio che si presenta al pubblico è una sorta di Otello farsesco in chiave ruspante. C’è la Gnua, giovane nel fiore degli anni, già amante di Menato, ora sposa di Ruzante, e ci sono gli appetiti sessuali dell’uno e dell’altro nei suoi confronti. Appetiti pantagruelici, per restare alla letteratura del ’500, ma comici proprio perché iperbolici e animaleschi. A cornice, la Gnua – diciamo che non è proprio un portento di nobiltà nei modi – ha la simpatica abitudine di chiamare a sé “le galine” del cortile sfornando una serie di epiteti che fanno riferimento al meretricio.

Volgare? Nemmeno per sogno: è un caso, tra i pochissimi, di “grevità lieve”, nel quale il contesto è così caricaturale che anche il turpiloquio acquista leggerezza, e sta bene. Esemplare, in questo senso il travestimento di Otello-Ruzante da soldato spagnolo, per verificare su invito di Iago-Menato se il ducato d’argento che la Gnua gli ha poc’anzi esibito sia frutto della concessione di favori sessuali alle truppe dell’imperatore. E Balasso che parla in spagnolo maccheronico tra “hostias” e “perbaccos” allungando con la “s” ogni parola di dialetto, è da risate a crepapelle. Se non altro perché, potenziale vittima di tradimento, è comunque tutto allegro per aver scoperto che al di fuori dell’ambito coniugale la Gnua appare capace di cose che da moglie mai si sognerebbe di fare. Fin qui, la parte comica.

Poi esplode la guerra, Ruzante e la Gnua si ritrovano senza un soldo e lui, da poveraccio, si arruolerà sperando di tornare a casa con un bel bottino. Finirà che la sua spedizione si concluderà a Mantova, in una sorta di lazzaretto dei disertori, con la beffa che moglie e compare, nel frattempo trasferitisi nella lussuosa Venezia, saranno divenuti amanti.

Sotto le risate si sente tutta la profonda amarezza della riflessione sulla caducità delle relazioni umane, e dopo essere riuscito nel miracolo di far sedere Ruzante, Rabelais, Shakespeare e Tinto Brass tutti allo stesso tavolo, Balasso chiude evocando il Falstaff cinematografico, capolavoro di Orson Welles. Non poteva davvero esserci finale migliore per uno spettacolo che si può serenamente candidare al podio delle produzioni del 2021 per profondità e ricchezza di spunti tra le proposte teatrali che ottimizzano il tempo in scena.