di Gian Luca Favetto (La Repubblica Torino * 07/10/2018)

LA PRIMA

Un eroe oscuro e borghese, protagonista di un dramma malinconico che passa dalla Commedia dell’Arte alla commedia all’italiana. E’ l’”Arlecchino servitore di due padroni” nella rilettura attuale di Valerio Binasco, che domani al Carignano apre la stagione del Teatro Stabile.

La svolta di Binasco “Il mio Arlecchino non ha maschera e vive un dramma noir e malinconico”

Niente costumi tradizionali. Niente maschere. Niente Commedia dell’Arte. Eppure è un Arlecchino, con insieme Pantalone e Brighella. Di più: è quell’Arlecchino che dal 1947, da quando Giorgio Strehler l’ha architettato per la prima volta, continua a servire due padroni e a riempire l’immaginario del pubblico con la sua velocità, i trucchi e le acrobazie, le sue arlecchinate. Un’icona sacco. Che adesso incontra Valerio Binasco, regista e attore, e in quanto attore e regista decisamente autore, il quale apre la sua prima stagione come direttore del Teatro Stabile con “Arlecchino servitore di due padroni” scritto nel 1745 da Carlo Goldoni. Che, fra l’altro, avvocato all’inizio della carriera di commediografo, Arlecchino lo chiamava Truffaldino.
Quasi niente è più come prima e niente è come appare in questo originale, spiazzante allestimento, una sorta di autoritratto d’autore. Alla gioia delle gag, si sostituisce lo sbalordimento malincomico delle parole e, al protagonismo della singola maschera, la verità della storia corale. Se andate a vederlo, vi rimarrà impresso. E’ uno spettacolo calato nel presente, con l’aura e la mestizia del ricordo perduto. Ci sono più sfumature, più penombre psicologiche e più noir.
Debutta domani al Carignano con le scene di Valerio Fiorato, i costumi di Sandra Cardini, le luci di Pasquale Mari, le musiche di Arturo Annecchino. Dieci attori, guidati da Natalino Balasso, nei panni di Arlecchino, e Michele Di Mauro, in quelli di Pantalone, e poi: Fabrizio Contri, Elena Gigliati, Denis Fasolo, Elisabetta Mazzullo, Gianmaria Martini, Ivan Zerbinati, Luciano De Francesco, Marta Cortellazzo Wiel. In replica fino a domenica 28.
Arlecchino, dunque, dall’incontro con Binasco esce diverso. Passa dalla Commedia dell’Arte alla commedia all’italiana, la prima, quella appena uscita dal neorealismo, ancora provinciale, struggente, non compiutamente borghese. Un po’ Pirandello, un po’ Monicelli, un po’ Totò e Fabrizi, con un tocco di Rohmer. “Qualche omaggio al vecchio teatro, le corde di canapa, le tele dipinte a fare da fondale, quelle macchinerie che non ho mai usato, mi sembrava adatto per questo Goldoni -racconta Binasco- Certo, il mio rimane un tentativo di aggiornamento in chiave psicologica e persino borghese del testo”.
Perché mai bisogna aggiornare Arlecchino? “Nel tempo, mi è accaduto di rileggere e studiare questa commedia. Da ragazzo ero innamorato della Commedia dell’Arte, sognavo di interpretare Arlecchino, mi piaceva la sua fisicità e tutto il mondo delle maschere, ero totalmente affascinato da Ferruccio Soleri, lo storico interprete dello spettacolo di Strehler. Poi però, leggendo e rileggendo il testo, ho scoperto la densità degli altri personaggi, che hanno un loro peso e un loro senso. E ho visto il dramma. Allora l’ho seguito. Perché tutta questa giostrina da Settecento, scaturisce pur sempre da un omicidio. Goldoni, che è un buonista, ci passa sopra con leggerezza, ma questo è. Da qui parte tutto”.
In effetti, la coppia torinese che capita a Venezia animando l’intreccio, riempiendolo di equivoci, sono due giovani in fuga da un omicidio. “Beatrice si traveste da uomo non per divertirsi -spiega Binasco- ma per fuggire dalla polizia. Scappa con l’amante che, a Torino, in una rissa ha ucciso suo fratello. E allora, se rinuncio all’immaginario artificiale delle macchiette; se rinuncio al desiderio feticistico delle gag strepitose, trovo il taglio malinconico e oscuro di tutta la vicenda”.
Il divertimento e le risate rimangono, ma sono dispiegate nel territorio umano della commedia. “E qui il ruolo di Arlecchino è quello dell’idiota, cioè, etimologicamente, uno che pensa soltanto a se stesso. Non lo fa per egoismo, ma per un ritardo nell’empatia, e così combina un sacco di guai nel cuore degli altri. E questo aumenta il tono drammatico della storia”.
Una scelta coraggiosa, affascinante, quella di Binasco. “Mi metto contro una tradizione teatrale che sembra inamovibile. Non voglio cambiare le forme, voglio rinnovare il racconto. Passo dritto per dritto dalla Commedia dell’Arte, alla quale mando un saluto affettuoso e commosso, alla commedia all’italiana di provincia, quella dell’Italia di provincia e del primo dopoguerra”. Arlecchino, Pantalone, gli innamorati buffi, i due fuggiaschi, Brighella, Smeraldina, in questa visione, hanno una voce più scura. Sono più disperazione e dispersione di sé che maschere. Più beffati che beffardi. Sono il Novecento. Anzi, una eco livida del secolo trascorso, che ancora segna il presente e non lo lascia andare.