di Paolo Mazzucato (Alto Adige – 27/11/2021)
Ci si mette un po’ ad accorgersene, ma sul brusio dell’attesa in platea prima dell’apertura del sipario di questo Ruzante di Balasso, in sala aleggia e si diffonde discreto un bucolico cinguettio. Un invito alla campagna. Perché è lì che ci ritroviamo, poco dopo. Una campagna dove si aggirano solo galline ruspanti, bio ante litteram.
Me le immagino anche un po’ sporche, ma ovviamente sanissime. E nel giro di qualche minuto, incontriamo lui: il poeta Ruzante appunto. Poeta? Lui? Gnua, sua moglie, che è l’esatto contrario della donna angelicata, intenta com’è a ricercare le sue “svergognate” galline (apostrofate però in modo meno felpato), lo vede proprio così, poeta, il suo carnosissimo e terrigno marito. Poeta suona strano, su un broncio scarmigliato e su brache tutte logore. Ma questa uscita di Gnua ci mette sull’avviso: chissà. Sono sgangherate le sue metafore, Ruzante grida subito di non saper parlar d’amore “come fanno a Padova”, ma senz’altro lui lo vive in un modo più concreto, l’amore, pieno di paglia e fatica e sudore. E un po’, raccontandolo, lo impara. Anzi, attraversando in una cavalcata da Brancalone un tratto della sua esistenza, si imbatte, con la sola protezione della sua invisibile corazza di genuinità, nei passaggi che segnano ogni crescita: l’amore quando vola e quando precipita giù, l’ingiustizia dei potenti, la crudezza della guerra di soldato. Ruzante non sa cos’è l’inganno, glielo insegnano ma lo impara male, anzi alla fine se ne vergogna; non sa cos’è il sospetto, glielo instillano e viene travolto di rabbia, che però finisce lì. Riconosce invece al primo sguardo la delusione del tradimento, quella sì la più intima delle passioni, perchè la delusione parla una sua lingua antica, non equivoca, e lo disarma dopo che si è azzuffato per la sua donna con tutta la forza delle sue stanche braccia. Peripezie d’amore, le sue, che intanto, piano piano, lo maturano, come fa il sole con il grano che è abituato a falciare. Il suo compare Menato, uomo scafato nel mondo, sta lì ad ogni dogana del destino a presentargli un conto sempre nuovo, un livello sempre più complicato per non uscire dal videogioco rinascimentale in cui si trova a correre e che per lui prevede un percorso pieno di accidenti. Ma la Gnua aveva ragione, all’inizio: Ruzante era già un poeta anche quando sbraitava il suo piacere, e a forza di amare sorprese della vita scopriamo che ha appreso ad affinare il suo poetare. E se c’è un modo nobile per dichiarare la propria devozione ad una donna, beh quel modo Ruzante l’ha imparato, lui, bifolco perfetto, e lo traduce in parole credibili, altissime e impudiche, alla fine della sua avventura, che è anche quella su cui (non ) si chiude il sipario. E noi usciamo dalla campagna, nelle orecchie una lingua che ci dà la nostalgia di un dialetto di casa, una playlist musicale sorprendente, e nella mente, a interrogarci, quel modo ruzantesco di stare con Gnua.