Hystrio 23 Ottobre 2005
Balasso, teneri disincanti nel Veneto di Menghello
di: Laura Bevione

Nel 1990 Marco Paolini e Mirko Artuso furono i protagonisti di uno degli spettacoli “storici” di Teatro Settimo, meritandosi quella definizione non soltanto per l’indubbia qualità drammaturgica e interpretativa, quanto perché convincente compendio della poetica teatrale elaborata dalla compagnia guidata da Gabriele Vacis. Quindici anni dopo l’entusiasmo di Nataliano Balasso ha persuaso Vacis & co. a riproporre quello spettacolo, senza cambiare nulla fuorché il protagonista. E diciamo subito che il comico veneto non fa affatto rimpiangere Paolini: c’è una nota di amarezza e di tenero disincanto che si discosta dall’esuberanza narrativa del predecessore ma si tratta unicamente di personalità e di punti di vista riguardo l’esistenza non coincidenti, mentre la perizia attorale è indubbia in entrambi i casi. Accanto a Balasso, poi, c’è ancora Mirko Artuso che non è possibile accantonare semplicemente come “spalla”. Un co-protagonista, piuttosto, altrettanto capace di suggerire umori ed emozioni, scivolando agilmente da un personaggio all’altro. Balasso e Artuso sono una coppia affiatata e generosa che ricrea sul palcoscenico l’infanzia nelle campagne venete dipinta da Meneghello nel suo romanzo omonimo: le partite di calcio e i rapporti con le ragazze, la scoperta del sesso e il pervasivo controllo della Chiesa. I due, però, sommano ai ricordi di Meneghello la propria stessa esperienza, aggiungendo così allo spettacolo una maturità nuova, nutrita in parti eguali da solidità e nostalgia. La scena essenziale – una sorta di “zanzariera” mossa a mano dai due interpreti – i pochi oggetti di scena – due sedie, la bicicletta, un pallone – il ricorso discreto alla proiezione di immagini d’epoca, le musiche che accompagnano e sottolineano e mai soverchiano, la centralità attribuita al corpo e alla voce dell’attore, ci restituiscono, poi, quel modo di intendere e di fare teatro che ci fece innamorare di Teatro Settimo al primo incontro e di cui oggi sentiamo una strisciante mancanza.