INTERVISTA
di Brunello Vescovi (La Stampa Alessandria * 30/10/2018)

NATALINO BALASSO. L’attore veneto stasera in scena al Civico di Tortona, domani a Novi. Niente costumi, la regia di Binasco offre un taglio netto con la lettura goldoniana di Strehler

Dopo il debutto in prima nazionale al Carignano, prima data in provincia -stasera alle 21 al Civico, mentre domani sarà al Giacometti di Novi- per “Arlecchino servitore di due padroni” di Carlo Goldoni. Ma dimenticatevi Strehler. Il protagonista Natalino Balasso spiega che il suo personaggio, come l’ha voluto il regista Valerio Binasco, direttore artistico dello Stabile di Torino che produce lo spettacolo, è un’altra cosa.
Balasso, prima di tutto lei si sarebbe mai aspettato di interpretare Arlecchino?
“Mai avrei immaginato di farlo alla mia età, visto che sono del ’60. Ma è davvero una declinazione di Arlecchino diversa, intelligente. Serviva una nuova lettura: più umana, più cinematografrica”.
Senza i costumi della Commedia dell’Arte e senza funambolismi?
“Appunto. Rimane comunque uno sforzo fisico, ma tutto è più incentrato sul disagio che sulla furberia. Siamo di fronte a una persona disagiata che, pur di ottenere lavoro, e riuscirà ad averne due, è disposto all’automutilazione”.
Anche in abiti borghesi, resta però il solito bugiardo
“Non mente con cognizione di causa. Lo fa perché deve improvvisare nuove verità. E le bugie gli si ritorcono contro. Arlecchino è uno che vede solo se stesso, non vede gli altri, vede solo il suo scopo, spicciolo. E per questo finisce col devastare la vita degli altri”.
E’ rassegnato, depresso?
“Solo uno che vede il mondo come se fosse un panorama di campagna. Vede distanti anche i suoi simili. Nella commedia è molto presente il rapporto di dominanza fra padroni e servi. Anche Smeraldina, quella che lui sposerà, è trattata come un pacco. “La diamo in sposa a questo o a quel servitore?” Il fatto di essere trattato così gli fa vedere il mondo da distante. Cerca di far passare il dolore delle botte che prende con le formule che gli insegnava la nonna”.
Il rapporto con Pantalone?
“Lo teme, nei suo confronti è sospettoso, sempre in guardia. Sa che rischia di prenderle. Viceversa l’altro lo percepisce appena, lo tratta con sufficienza. Così come fa con il servo dell’osteria, che poi è Brighella. Nel testo di Goldoni era in realtà il proprietario, ma nella ripartizione che ha fatto Binasco -servi di qui e padroni di là- è finito dall’altra parte.
In questa versione ci sono anche toni noir.
“In Goldoni è appenna accennato l’omicidio: l’autore aveva bisogno di un pretesto grave per creare una coppia di fuggitivi. Binasco mette invece in questa vicenda sullo stesso piano del resto della storia. Non vuole che si dimentichi che l’uomo in fuga che sposerà Beatrice è comunque un assassino. Così c’è la commedia e la gente si diverte. Ma sul palco ci sono anche molta verità e molto sentimento, che è un po’ il sigillo degli spettacoli di Binasco”.
Un trasferimento dalla Commedia dell’Arte alla commedia all’italiana?
“Binasco è partito da un principio: un linguaggio deve essere compreso dai contemporanei. Quando noi oggi facciamo Commedia dell’Arte, facciamo un’operazione archeologica. All’epoca era un linguaggio molto comprensibile: si rideva delle botte, delle bastonate. Oggi, se noi vediamo un uomo che viene frustrato -a parte ovviamente il 30 per cento degli italiani- il risultato è commozione più che risate”.
Pare davvero conquistato dal regista.
“Lui è un grande attore: conosce bene le difficoltà nell’affrontare i personaggi. Da regista ti prende per mano: pretende verità e sentimento sul palco e non esita a trasmetterti gli strumenti tecnici come quelli emotivi. L’avessi conosciuto dieci anni fa sarei oggi un attore migliore.