Riporto un’intervista ad opera di Alice Castiglione a proposito del mestiere dell’artista e dell’industria culturale. Preferisco riportare solo le domande e risposte perché trovo stucchevoli le continue immagini e slogan che appaiono nelle pubblicità delle riviste online, che oltretutto pregiudicano la lettura scorrevole degli articoli. Chi volesse trovare l’articolo nella pubblicazione lo trova a questo link: https://ecointernazionale.com/2021/03/arte-artist-lavoro-indagine/

Il titolo dell’intervista è: “Arte, artistə e lavoro: una indagine sullo stato dell’arte”

  • Immagino lei sia a conoscenza del dibattito sull’articolo del Sunday Times Singapore che ha reso pubblica l’indagine sulla non essenzialità del lavoro degli artisti, aprendo di fatto un dibattito anche in occidente. Come si sente a riguardo? Questo clima influisce sul suo lavoro?

Risposta: Che la società ritenga quello dell’arte un lavoro produttivo o essenziale è un dibattito che poco m’interessa. Nell’era della mercificazione globale è chiaro che un lavoro diventa tale quando rende e questo è l’aspetto economico; Ma il mondo del lavoro è rimasto molto indietro rispetto all’evoluzione della società, metà dei lavori sono inutili, versiamo dazi obbligatori a società che devono certificare il livello di adeguamento delle aziende a canoni decisi da leggi che servono solo ad assicurare lavoro a quelle società certificatrici, tutto il dibattito sul lavoro è ridicolo perché oggi il lavoro è solo ciò che assicura stipendi a persone che saranno obbligate a spendere soldi in merci per lo più inutili, attraverso i meccanismi commerciali; tutto questo serve a raccogliere tasse per finanziare il lavoro di tutta una serie di appendici statali o pubbliche che generano nuovi stipendi che compreranno nuove merci. Ovvio che quello dell’arte non è un lavoro, la nostra è una fottuta azione terroristica, spaventiamo la gente perché le mostriamo la fossa di grottesco squallore in cui si è cacciata.

  • Data la sua esperienza nel campo artistico e delle sue applicazioni, puó darci la sua visione dell’industria creativa e culturale contemporanea? Come é possibile salvaguardare il lavoro degli artisti se molti artisti, specialmente giovani, non sanno che esiste un sindacato o non riescono ad aprire/mantenere partita iva e legittimare il loro lavoro, per esempio?

Risposta: Un settore si organizza quando si sente un settore. Quello artistico è un mondo costellato di eccezioni, che i tecnici del teatro o gli operatori del cinema o i battitori d’asta pensino che i loro diritti vadano tutelati è sacrosanto, ma nei teatri pubblici, solo per fare un esempio, questo si è trasformato in scatti d’anzianità per cui un pessimo attore per cui nessuno alzerebbe il culo dalla poltrona di casa non è considerato in base al suo talento, ma in base al tempo che ha impiegato a replicare in pubblico le sue pessime esibizioni.

  • Le parole sono importanti e disegnano la norstra percezione; “industria” chiama “operai”. Cosa pensa della definizione “industria creativa”? 

Risposta: In alcuni settori l’industria esiste, ad esempio quella del cinema americano è un’industria che produce miliardi e che impiega cemtinaia di migliaia di dipendenti. Se pensiamo al teatro di Broadway che impiega moltissime persone e che incassa anche 5 o 6 milioni all’anno con un solo spettacolo, persino il teatro può diventare un comparto industriale. In Italia siamo un po’ più straccioni, ma credo che ci stiamo un po’ incartando sulle definizioni: che esista un’industria creativa è possibile, ma affibbierei questa definizione più al mondo della pubblicità (che comunque è un’arte creativa) che al resto.

  • Puó darci la sua posizione sulla questione dell’accesso ai mestieri dell’arte, specialmente per le donne? 

Risposta: oh DIo, le donne, mi sembra che quello artistico sia il settore che meno patisce discriminazioni di genere. Certo, se continuiamo a rappresentare opere scritte in epoche in cui le donne non andavano nemmeno in scena è ovvio che ci sono pochi ruoli femminili interessanti, ma sui testi contemporanei questo non succede. L’ingresso nel mondo professionale per i giovani non è cosa di cui dovrei parlare io, che sono un autodidatta, ma mi sembra che lo stato si sia mosso malissimo in questi anni. Parliamo del teatro, che è l’unico ambiente che conosco, se facciamo uscire 300, 400 attori ogni anno dalle scuole di teatro degli stabili è ovvio che stiamo creando schiere di disoccupati. In quali produzioni lavoreranno tutti quegli attori? Perché non esiste uno studio sul numero di attori usciti dalle scuole statali del teatro che hanno poi fatto un altro mestiere? Popolizio ha detto una cosa crudele ma vera: oggi il teatro in Italia ai giovani attori chiede una cosa sola, di costare poco. Dato il sovraffollamento delle classi gli attori costeranno sempre meno. Del resto le scuole di teatro, nonostante l’impegno di bravi insegnanti e nonostante il livello medio stia molto migliorando, funzionano secondo lo schema prussiano: costruire individui intercambiabili di qualità media, in gruppi in cui il talento è quasi un fastidio. A questo ha contribuito anche il teatro di regia, che vede l’attore come un esecutore senza personalità che sa riportare bovinamente sulla scena gli schemi registici.

  • Sono rimasta molto colpita dal suo video del Maggio 2020 in cui lei immagina e propone possibili soluzioni per reagire non solo alla pandemia, ma anche al generale abbrutimento culturale. Perché in Italia, storica culla di cultura e arti, non é possibile proporre modelli alternativi tanto da trovarci lezioni di zumba nei musei? 

Risposta: Questo dipende da una sola cosa: così come nella società, anche nella classe politica c’è sempre meno intelligenza. Ora, per l’intelligenza non si può far niente, uno lo è o non lo è, ma almeno nel settore culturale mi aspetterei gente colta, preparata, che sa di cosa sta parlando. Non è così.

  • Sono tantissimə coloro che vorrebbero vivere di pratica artistica ma si ritrovano a fare tutt’altro o abbandonare la pratica per poter lavorare in posizioni “che pagano”. Considerato il numero di artistə che vivono al limite o sotto la soglia di povertá, molte volte a causa di una pratica che punta sulle comunitá e sulla base volontaria del lavoro, cosa pensa dei bandi per i fondi europei? Pensa che siano sufficienti e accessibili?

Risposta: En passant le faccio notare che abbiamo passato anni a perculare i bimbiminchia che scrivono le parole con la k per ritrovarci a scrivere parole con asterischi e lettere rovesciate, buffo no? Per il resto non so nulla di bandi europei, io sono obbligato dallo stato a mantenere una srl che poi siamo io e mia moglie solo perché è l’unico modo per poter produrre i nostri spettacoli in totale autonomia e libertà di scelta, non ho mai chiesto un finanziamento e quando la gente ha cominciato a conoscermi facevo già teatro da 10 anni e non ho mai chiesto fondi pubblici, quelli che se la tirano il teatro privato lo chiamano teatro commerciale, eppure non c’è nulla di più venale che l’occupare un posto ben pagato di direttore di uno stabile messo lì dal potere politico, non c’è nulla di più venale che il commercio dei bandi, non c’è nulla di più mediocre delle compagnie che passano il loro tempo a fare progetti artistici che devono assecondare le imposizioni dei bandi, cosa c’è di creativo in tutto questo? Cosa c’è di dignitoso in una compagnia che produce uno spettacolo su tema commissionato, spuntando le caselle dell’età degli attori, del luogo di residenza e di altre cose che col talento e con l’arte non c’entrano nulla?

  • A proposito di pratiche collaborative nel mondo dell’arte, sarebbe possibile, secondo lei, creare poli artistici socialmente rilevanti ed autosufficienti, magari come autogestione ecosostenibile che porti la politica tra le maglie dell’arte avvicinandoci, di fatto, ad un piano estetico che rimanda a Hegel, Brecht, Orwell o Adorno, ma contestualizzato all’oggi? 

Risposta: La politica nelle maglie dell’arte c’è già, si è infilata come un cancro nel settore e si è mangiata anche le maglie.

  • Vuole lanciare un breve messaggio a chi ci legge?

Risposta: Se avete letto fin qui non avete bisogno di messaggi: siete il 10% della popolazione e la metà di voi non ha nemmeno capito quello che ha letto.

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In coda all’articolo l’autrice, rispondendo alla mia battuta sui bimbi minchia, riporta un passo di uno studio degli anni ‘80 nel quale si cita un serio dibattito fra linguisti sul sessismo nella lingua:

Concludendo, una piccola nota all’articolo 

Questo capitolo è estratto da Il sessismo nella lingua italiana a cura di Alma Sabatini per la Presidenza del Consiglio dei Ministri e Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità tra uomo e donna del 1987. Questo per spiegare che l’utilizzo dello schwa (ə) é qualcosa che va oltre l’uso irrazionale e/o modaiolo.  La pratica non fa parte dello slang, delle abbreviazioni o della lingua scritta online. É invece il risultato di un lungo processo di sociolinguistica. Mi preme sottolinearlo perché la lingua e il modo in cui intendiamo il mondo intorno a noi, si intersecano profondamente e come il mondo, muta.

Fuori d’intervista, aggiungo che:

Chi ha voglia di leggere l’articolo linkato in nota, può capire le ragioni sacrosante di questi studi. Che vanno presi per quello che sono: studi, che come tali vanno portati avanti. Dare perciò regole con tanto di no e sì nell’87 e rendere definitiva una questione sotto studio, è un fallimento annunciato, ciò è dimostrato dal fatto che molte di quelle raccomandazioni, quasi 30 anni dopo, sono cadute nel vuoto. Capisco che molta gente non prenda sul serio queste posizioni, ma io le prendo invece molto sul serio. Del resto, prendo sul serio anche i gerghi che, a differenza delle imposizioni dei governi, nascono dal popolo. Ed è proprio perché prendo sul serio queste posizioni che ne critico alcune. L’uso di una lettera che non appare nella stragrande maggioranza delle tastiere non è una buona soluzione. Imporre l’uso del neutro in una lingua che non lo prevede è un problema che può causare catastrofi linguistiche a cascata. Infatti il tentativo d’imporre lettere rovesciate o asterischi non è altro che un pretenzioso desiderio di rivoluzionare le fondamenta linguistiche. Determinare il genere di gruppi misti addirittura alternativamente ed evitare di mettere il maschile prima del femminile fa parte di un’osservazione fuorviante: dall’esistenza del mondo “cavalleresco” il femminile viene sempre anteposto al maschile ma ciò non evita che quelle società siano maschiliste. L’autrice fa uso di quella lettera particolare (la e rovesciata che nel nostro paese non esiste) solo un paio di volte, mentre per il resto, il plurale è, come d’uso nella lingua italiana, al maschile. Se nemmeno chi porta avanti queste teorie ne fa uso non siamo messi bene. Del resto, con la stessa logica, potrei dire che durante tutta l’intervista, nonostante io sia un maschio, continua a darmi del lei. 

Ma, a parte i paradossi di alcune di queste teorie, ciò che mi vede perplesso non è l’intenzione, ripeto, sacrosanta; ma il fatto che si voglia ignorare che una lingua è sempre imposta da un potere. L’unica lingua che nasce dal popolo è il dialetto. Ora, queste mutazioni linguistiche che si vorrebbero imporre, allo stesso modo in cui il fascismo bandiva le parole straniere, sono trovate che non potrebbero mai mutare il costume. La lingua riflette una cultura, non la condiziona, se molte parole vengono avvertite come sessiste è perché la società è sessista. Se si lavorasse perché la società fosse meno sessista, come d’incanto il linguaggio muterebbe da sé.

Nel gergo popolare che si usa anche nel mondo lavorativo una “cazzata” è sempre una cosa brutta mentre una “figata” è sempre una cosa bella, ma questo linguaggio non ha migliorato la posizione delle donne nel mondo del lavoro. Che non si usino parole che nella lingua italiana esistono, parole in grado di dirimere questioni simili, è abitudine che può venir cambiata, almeno a livello burocratico, ma che si vogliano imporre parole nel linguaggio comune, che ha spesso già superato queste questioni, sarà sempre una rincorsa in ritardo. Del resto, anche burocraticamente, è possibile incappare in gaffe come quella di “genitore 1” e “genitore 2”, in cui i termini sono sempre al maschile (anche il mondo gay può essere sessista) anche in presenza di una madre, senza nemmeno curarsi del fatto che il termine “genitore”, nella sua accezione dal latino, significa “padre”.